Matrix: proteggere i bambini radiando gli avvocati che usano false accuse

La cosa più grave è che ci sono certi avvocati che avallano strategie processuali basate su false denunce. Vanno radiati dall’ordine e ne devono rispondere non lavorando più perché guadagnano sulla pelle dei nostri figli”.  Tibero Timperi a Matrix, 31 Marzo 2011.

 

Purtroppo nessuna norma del codice deontologico forense proibisce questo.  Nessuna femminista specializzata in false accuse di violenza domestica e nessun abusologo specializzato in false accuse di pedofilia è stato mai fermato.

Cosa è possibile fare per proteggere i bambini?

Qualora le false accuse siano talmente gravi da riuscire a sospendere il rapporto fra un figlio ed il suo genitore, arrivando nei casi più estremi a causare al bambino una Sindrome di Alienazione Genitoriale, è possibile tentare di denunciare il genitore alienante per maltrattamento su minore ed il suo avvocato per favoreggiamento, nella speranza che finisca in mano ad un magistrato particolarmente sensibile al benessere dei bambini.

Nelle dovute forme, è possibile denunciare pubblicamente i nomi di questi particolari avvocati definiti “banditi” da Tiberio Timperi.

È possibile raccogliere i loro nomi in un registro pubblico.

Fonte: http://www.youtube.com/watch?v=fjYIOeSY2sQ&feature=player_embedded#at=88

 

Intervista al giudice Roberto Ianniello: il rapporto fra la Giustizia e i Minori

Riprendiamo una intervista, apparsa sulla rivista Psychomedia, al giudice dott. Roberto Ianniello, che è stato recentemente vittima di incredibili e vergognosi attacchi .

Padre di due figli e marito di una pediatra e psicoterapeuta il dott. Roberto Ianniello è giudice anziano del Tribunale dei Minorenni di Roma. E’ stato protagonista di una delle più significative esperienze di collaborazione fra Magistratura e Servizi Sociosanitari, la UORMEV (2) Attualmente fa parte del gruppo di ricerca sulla Mediazione Interistituzionale affidato dal Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma all’Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza e presieduto dal prof. Novelletto. Inoltre il dott. Ianniello coordina uno dei gruppi distrettuali organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura finalizzati all’autoformazione dei giudici attraverso la discussione dei criteri e delle metodologie utilizzate nello svolgimento del proprio lavoro istituzionale.

In quella che da molti viene definita una società “senza padri” e di figli “sregolati” la figura del giudice del Tribunale dei Minorenni appare sempre più intensamente investita di aspettative e di timori, sia da parte dei ragazzi e delle loro famiglie che dai Servizi sociosanitari deputati alla prevenzione e alla riabilitazione del disagio adolescenziale. Il magistrato appare collocato su un crinale fra due serie di rappresentazioni: su un versante vi è quella di una “giustizia giusta”, a cui viene delegata la responsabilità di ripristinare l’ordine che è stato sovvertito nella società e, in particolare, di garantire la tutela del minore, il più fragile e bisognoso fra i diversi attori sociali.
Sull’altro versante vi è la rappresentazione di una “giustizia ingiusta”, lenta oppure troppo frettolosa e fallace. In quest’ultimo caso il giudice viene rappresentato come un padre assente e autoritario, che dispone provvedimenti ma non ne verifica l’attuazione, sottraendosi alla relazione con gli utenti e con i Servizi. Insomma, il giudice dei minori è un personaggio allo stesso tempo vicino e lontano e questa intervista è finalizzata a conoscerne meglio ruoli, funzioni, orientamenti.

D. Partirò dal principio: quando e perché si è costituito in Italia il Tribunale dei Minori?

 

R. Il Tribunale dei Minorenni è nato nel 1934 principalmente come organo di controllo della gioventù, in un periodo in cui il Governo mirava al controllo totale della vita sociale dei cittadini. Esso avrebbe costituito un po’ un contrappeso al potere dell’Azione cattolica sui giovani e le famiglie, che il fascismo non riusciva ad intaccare. Negli anni ’30, ’40, Ô50 il giudice dei minori aveva una competenza molto estesa, particolarmente nei settori penale e amministrativo. Poteva intervenire sui minori “irregolari nella condotta”, come diceva la legge, per mandarli in case dove erano contenuti e “curati”. Si è lavorato molto sul piano giurisprudenziale per adeguare le norme alla realtà sociale e culturale in evoluzione. Quando verso la fine degli anni’60, sulla scia delle ricerche e delle scoperte americane, il concetto di abuso è giunto anche in Italia si è attivata la protezione dei minori dall’abuso, utilizzando le norme civili del codice degli anni ’40 attraverso un imponente lavoro interpretativo. Il giudice dei Minorenni è diventato sempre più il giudice dell’abuso e si è attrezzato per fronteggiare questo fenomeno sociale che si scopriva via via essere molto esteso.

D. In cosa consiste il lavoro di un giudice del Tribunale dei Minori in una metropoli come Roma?

 

R. Raffrontare il giudice dei minori alla metropoli mi sembra riduttivo. Il Tribunale di Roma opera su tutto il Lazio e ciò comporta occuparsi anche dei problemi di Comuni piccoli o piccolissimi: basti pensare che la sola provincia di Frosinone ha novantasei Comuni. Esistono tuttora molte problematiche legate al costume locale. Ad esempio, abbiamo potuto osservare fenomeni di incesto in province nelle quali permangono residui di una sorta di iniziazione rituale del pater familias rispetto alle figlie adolescenti, a volte anche preadolescenti. Come pure la resistenza culturale a istituti innovativi come l’affidamento familiare, per persone abituate a ritenere i figli altrettante cose proprie.

D. Quali sono le problematiche di cui vi occupate?


R.
Da un’opinione pubblica abituata alle schematizzazioni il Tribunale dei Minorenni viene considerato il Tribunale dell’adozione e del perdono giudiziale. In realtà il 90% della competenza civile del Tribunale dei Minorenni è nel campo dell’abuso all’infanzia.
E’ un lavoro impegnativo perché è molto difficile individuare questa patologia dei rapporti familiari che spesso, in una visione ristretta, viene ridotta ai maltrattamenti fisici o alle violenze sessuali ma che ha un contenuto ben più ampio. L’abuso, in Italia, si concretizza in larga maggioranza in ipotesi di abbandono. Nella nostra società il bambino subisce molteplici e ripetuti abbandoni che spesso sono ascrivibili ad una ridotta capacità dei genitori ad occuparsene, non solo a causa dei molteplici impegni contingenti ma anche per una sorta di carenza sotto il profilo della trasmissione culturale. Una volta le mamme insegnavano alle mamme. La mia generazione, che è la generazione del Ô68 e del ’77, ha rifiutato ogni forma di tradizione, ogni forma di insegnamento dei padri. Tuttavia la mancanza di radici ed il rifiuto dell’eredità culturale ad un certo punto emergono in termini di disorientamento. Alcuni genitori non hanno avuto una bussola per orientarsi ed hanno dovuto inventarsi le risposte ai bisogni dei figli, per rispondere in maniera non autoritaria, come si faceva prima, pur senza conoscere fino in fondo i comportamenti corretti. A volte si sono commessi degli abusi anche non sapendolo, credendo di fare bene, e gli abusi influiscono sullo sviluppo dell’affettività, dell’aggressività e delle relazioni con l’esterno del bambino, senza parlare degli aspetti cognitivi. Queste carenze nell’evoluzione ad un certo punto emergono e spesso ciò si verifica nell’adolescenza.

D. In certi casi l’adolescenza sarebbe una sorta di cartina tornasole dell’abuso, dunque?

R. Purtroppo si cerca di curare con i farmaci o con equivalenti dei farmaci, come se tutta l’adolescenza fosse in sé una patologia, e si perde in questo modo l’occasione unica di intervenire per aiutare il ragazzo a rimettere le cose a posto in un momento caratterizzato da una grande mobilità psicologica. Non c’è da meravigliarsi dello straordinario successo che ha avuto, prima negli Stati Uniti e ora anche da noi, quella sindrome del bambino iperattivo con la quale si è preso ad etichettare come malattia qualsiasi disturbo che il bambino presenta nella relazione.

D. Chi vi segnala le situazioni di abuso?

 

R. La segnalazione può avere varie origini: un genitore, i parenti, i vicini di casa, la scuola. Non è facile individuare i fattori di rischio evolutivo e quelli di protezione. Qualche anno fa a Monza l’équipe del prof. Bertolini, effettuò una ricerca sui fattori di rischio. I ricercatori si rendevano conto che le famiglie abusanti normalmente sono occulte e non hanno relazioni con le istituzioni: non mandano i figli al nido o all’asilo. Gli unici momenti in cui si potevano individuare le situazioni di rischio familiare erano quello della nascita (il passaggio dalla ginecologia e dall’ostetricia) e il momento della visita pediatrica. Avevano allora predisposto dei questionari per individuare possibili situazioni che poi venivano seguite con un follow up atto a vedere come si poteva contenere il rischio. Spesso la segnalazione individua un’emergenza e richiede risposte immediate ad un disagio già in corso, mentre la modifica preventiva di una situazione di rischio permetterebbe di lavorare soprattutto con le famiglie, in una specie di alleanza nell’interesse del minore.

D. I non addetti ai lavori sanno che le decisioni del Tribunale vengono prese nella Camera di consiglio, ma non ne conoscono l’effettivo funzionamento.


R.
La Camera di consiglio è composta da quattro persone: due sono giudici di carriera e
due sono giudici onorari: psicologi, assistenti sociali, neuropsichiatri, pedagogisti, insegnanti o avvocati, nominati a quella funzione proprio perché hanno una specializzazione rispetto alla trattazione dei problemi infantili. Uno dei due giudici è quello che conosce meglio il fascicolo, perché ha effettuato l’istruttoria.
L’altro è il presidente del collegio. Chi ha compiuto l’istruttoria riferisce quello che è successo, dalla segnalazione del caso a tutto quello che si è accertato in seguito (dichiarazioni delle persone, indagini del servizio sociale o della polizia) fornisce il suo parere in proposito e propone una soluzione. Questa soluzione viene discussa e a volte può non essere accolta. Può capitare a questo giudice di dover scrivere un provvedimento su cui egli non sia del tutto d’accordo ma che è stato votato dalla maggioranza del collegio. Questo è difficile da far comprendere ai Servizi territoriali ed alle persone che hanno collaborato con il Giudice nella raccolta dei dati, fornendo la propria opinione e le proprie proposte. Il Tribunale dei Minorenni sta cercando di riacquistare quanto più possibile un ruolo di imparzialità che nella foga della protezione dell’infanzia si era un po’ persa. I Servizi a volte pensano di poter concordare con il giudice una soluzione, ma questo non è possibile. Mi ricordo che nelle riunioni che c’erano all’epoca della UORMEV, in cui si discuteva dei casi, molte volte c’era da parte degli operatori l’accusa di non aver aderito alla proposta del servizio.

D. Il dottor Fadiga, l’ex presidente del tribunale dei Minorenni di Roma, segnalò che in numero sempre maggiore gli adolescenti si sottraggono al controllo della famiglia e della scuola e si orientano verso condotte antisociali senza i provvedimenti civili in materia di potestà genitoriale né i provvedimenti di ricovero in strutture protette riescano a fornire risposte di aiuto e di contenimento. E’ d’accordo?

 

R. Sono d’accordo. In istituto i problemi non si risolvono ma si aggravano, salvo rare eccezioni. Se l’adolescente rimane in famiglia, per quanto in una situazione conflittuale, ha qualche rapporto affettivo in più, l’ambiente è meno impersonale. Gli istituti dove si può effettuare una terapia si contano sulle dita delle mani. Di solito gli istituti sono privati e quando l’adolescente manifesta dei problemi (dà fastidio, ruba, picchia i compagni, è aggressivo) lo buttano fuori. Insomma ÔAlla prima che mi fai, fai fagotto e te ne vai!’, come diceva un personaggio del Corriere dei Piccoli. C’è bisogno di case famiglia e istituti qualificati e accreditati che non abbandonino l’adolescente a se stesso o lo facciano avviare ad una precoce psichiatrizzazione. Il problema degli adolescenti è un problema familiare ma anche un problema sociale. Spesso i Comuni possono offrire agli adolescenti solo le sale giochi, i video poker e forse una piazza come luogo di aggregazione. Se non hai la ragazza, il PC, non giochi nella squadra di calcio locale o non frequenti la parrocchia cosa fai, in un piccolo paese? Bisognerebbe effettuare investimenti mirati per dare agli adolescenti più alternative: ad esempio realizzare centri diurni di aggregazione, con attività più o meno specializzate.

D. Mi sembra che abbia toccato il problema particolarmente spinoso dei luoghi e delle modalità dove “trattare” adolescenti problematici.

 

R. Il giudice può individuare una diagnosi adeguata, e il trattamento adeguato, ma poi la terapia non si può realizzare perché l’adolescente di Pignataro Interamnia o di Broccostella non trova nelle istituzioni del suo paese i mezzi e la volontà per essere seguito. Trovare un luogo per curarlo costa troppo. Da tempo ritengo che i Comuni che non riescono da soli a realizzare i compiti istituzionali che la legge gli affida in materia di tutela delle persone dovrebbero trovare dei sistemi per unire le loro forze, in maniera da sostenere insieme il peso e le difficoltà di questa azione. Gli unici consorzi che i Comuni sono riusciti ad organizzare sono quelli per lo smaltimento dei rifiuti. Credo che, assieme allo smaltimento dei rifiuti, sia necessario pensare a curare dei cittadini che, se non verranno aiutati e seguiti, potranno creare dei problemi futuri, non solo a se stessi e alle loro famiglie ma a tutta la società.

D. Quali sono i problemi di un’istituzione complessa come quella di un tribunale?

 

R. Sono i soliti, i condizionamenti dall’alto e dal basso. Dall’alto quelli legati a certe prassi burocratiche di origine ministeriale o anche dalla Corte d’appello: non so, compilare dei registri o non ricevere la copertura dei posti scoperti in organico. Dal basso il fatto di non disporre di personale qualificato. Il Tribunale dei Minorenni poi differisce dagli altri organismi giudiziari. Normalmente il giudice ha come interlocutori la polizia e i consulenti tecnici. I consulenti tecnici sono nominati dal giudice e in qualche modo dipendono dal giudice; il capo della polizia giudiziaria è il procuratore della repubblica, un magistrato. Il Giudice dei Minorenni, però, non agisce con la polizia né con i consulenti tecnici ma con specialisti di altre professioni che hanno un diverso ordinamento e diverse dipendenze gerarchiche, vengono pagati da altre istituzioni e sono totalmente liberi rispetto al giudice. Il giudice non può emettere ordini nei loro confronti. Essi devono svolgere il loro lavoro secondo i criteri della loro professione, che sono molto spesso diversi da quelli giuridici.

D. Si pone quindi un problema di integrazione fra queste diverse figure?


R.
Sì, a livelli diversi. Sia in termini di comprensione del linguaggio che di conflitti fra i dirigenti delle diverse istituzioni che possono fortemente condizionare il risultato di questa attività, che è un’attività complessa. Ormai l’hanno capito un po’ tutti che su un bambino, e soprattutto su un adolescente, si può sperare di ottenere un risultato se si lavora in équipe, con più persone che portino le proprie competenze scientifiche ma anche le capacità personali, sia tecniche che empatiche. Io mi batto da anni per la creazione di Servizi multidisciplinari, formati da più operatori che lavorano insieme. L’idea di risolvere i problemi con il singolo assistente sociale, magari relegato in un piccolo Comune sulla montagna, è pura utopia.

D. Eppure talvolta fra magistrati ed operatori dei servizi si registra una polemica: i primi contestano ai servizi sociosanitari del territorio di non fornire adeguati elementi per il giudizio e la decisione conseguente; i secondi denunciano la resistenza dei magistrati a voler realmente collaborare con altri professionisti e una tendenza a voler risolvere da soli i problemi. Qualcuno ha parlato addirittura di giudici in camice bianco e psicologi in toga nera. Qual’è la sua opinione in proposito?

 

R. E’ una polemica vecchia, credo abbastanza superata. Adesso l’accusa principale è quella di non voler concordare la decisione, mentre il giudice decide come terzo. Per cui ci sono richieste strane, ad esempio che la relazione del Servizio rimanga segreta. Ma come si fa a rendere segreto l’atto di un processo in un sistema in cui c’è la massima trasparenza a garanzia di tutti? Capita ancora, però, che certe indagini e certi accertamenti siano carenti e non diano gli elementi sufficienti per decidere, o che vengano effettuati dopo un tempo talmente lungo da rendere vana la protezione. Il giudice non attende passivamente questo tempo: ogni tre mesi al massimo sollecita una risposta; ma io ho avuto delle ASL che mi hanno risposto, nonostante solleciti stringenti, dopo oltre un anno. E allora l’alternativa è denunciarli per omissione di atti d’ufficio. Ma serve realmente fare questo? Una denuncia non facilita una collaborazione. Quindi il rapporto è sempre molto delicato. In ogni lavoro, sia fra i giudici che fra gli operatori e gli specialisti dei servizi, ci sono persone brave e meno brave, persone che hanno voglia di lavorare e persone che non l’hanno. Il problema vero è quando un Servizio s’identifica con la figura di una sola persona: se questa persona è impreparata è un guaio per tutti.

D. Diversi esperti propongono di migliorare il faticoso processo di integrazione fra magistrati e operatori dei servizi introducendo una specifica formazione psicologica per i primi e una formazione giuridica per i secondi. Non le sembra che in questo modo si dia troppo spazio agli aspetti intellettuali e troppo poco allo scambio e alla comunicazione diretta di atteggiamenti, contenuti e modelli culturali caratteristici delle specifiche professioni?

 

R. Penso di sì. L’integrazione è molto difficile anche perché i ruoli sono diversi: i Servizi devono svolgere le loro competenze in materia di accertamento, di prognosi, di individuazione delle problematiche e di proposte di soluzione, mentre il giudice deve giudicare. Il compito del giudice è di effettuare la iuris dictio, cioè dire quale norma di legge si applica al caso concreto e qual’è il rimedio alla violazione che si è verificata. E’ indubbio che una formazione specifica possa essere utile nel senso di creare le basi per una formazione comune. Però mi spaventa pensare ad una formazione di tipo tayloristico, nella quale ci sia il Docente e i discepoli che devono abbeverarsi al suo sapere. Una formazione così ormai abbiamo scoperto non funziona, non serve a scambiare ed elaborare le esperienze, i diversi modi di pensare e di sentire, né ad evitare appiattimenti cognitivi.

D. Negli ultimi anni hanno fatto scalpore i delitti commessi da alcuni adolescenti italiani, da Pietro Maso alle ragazze di Chiavenna e di Foggia fino a Omar ed Erika. Dal suo osservatorio a lei sembra che la violenza giovanile sia in aumento in Italia?

 

R. Direi di no. I dati statistici ci dicono che il livello di delinquenza giovanile in Italia è il più basso che esista in Europa e che questa situazione è rimasta stabile negli ultimi cinque anni. Certo è indubbio che oggi si assista a delitti particolarmente efferati e che ciò susciti particolare clamore, anche in relazione alla straordinaria cassa di risonanza dei mass media, motivati da esigenze spesso principalmente commerciali.

D. Cosa ne pensa delle proposte di legge di diminuire l’imputabilità piena da diciotto a quattordici anni e quella ridotta da quattordici a dodici?

 

R. Sono le proposte dei cosiddetti benpensanti, spaventati dalla risonanza di cui parlavo prima. Fino a quattordici anni si ha una piena irresponsabilità dei minori e al di sopra di quell’età, dai quattordici ai diciotto anni, vi è una piena imputabilità ma con una diminuzione della pena fino ad un terzo. Con il bilanciamento delle aggravanti, delle attenuanti e della diminuente della minore età si può sempre valutare la pena in maniera adeguata alla situazione, disponendo anche pene severe, se ne ricorrono i presupposti , dal momento che le previsioni normative lo consentono.

D. E’ vero che aumentano i reati commessi dagli infra-quattordicenni ?

 

R. Statisticamente non è dimostrato. In città come Roma il dato percentuale più elevato riguarda i reati commessi da persone non italiane, reati sempre degli stessi tipi: furti commessi dagli zingari e vendita di stupefacenti da parte dei nordafricani. Si cominciano a manifestare fenomeni di bullismo, che sono evidentemente dipendenti da un ambiente familiare e sociale inadeguato.

D. Un dato significativo è l’aumento dei reati collettivi. L’adolescente è spesso affiancato da un “complice”: un amico, il ragazzo/a, o, più frequentemente, agisce all’interno di un gruppo o di una “banda” legati da dinamiche specifiche. Mi pare che questo segnali lo stretto vincolo fra la mente del singolo e quella del gruppo e renda particolarmente complicato l’accertamento della responsabilità civile o penale che è sempre individuale. Come si muove il giudice in questi casi?

 

R. I reati di gruppo ci sono sempre stati. L’adolescente si unisce in bande quando ha bisogno di trovare conferme che non ha né nella famiglia né nell’ambiente sociale più esteso. Se i giovani fossero in società primitive probabilmente si sottoporrebbero a riti di iniziazione; in questa società a volte il comportamento antisociale può costituire l’equivalente di un rito iniziatico. Se l’adolescente avesse delle alternative nella famiglia o nel gruppo sociale non avrebbe bisogno di cercare conferme, considerazione, collocazione e anche affetto nella banda. Pensiamo alla paura che ha un adolescente quando commette un reato: paura di essere scoperto e di non essere adeguato, di perdere la faccia di fronte alla banda e al capo della banda, che può essere anche un adulto. Non ci dimentichiamo mai che imputabilità significa capacità di intendere e di volere, che vuol dire capacità di intendere il significato delle proprie azioni ma anche di volerle autonomamente. E’ opinabile che chi partecipa ad una banda abbia delle minori capacità di volere autonomamente l’atto compiuto perché in quel momento esso è in qualche modo emanazione di qualcun altro, di qualche cos’altro, forse emanazione di questo spirito impersonale ed anonimo della banda che proprio per questo anonimato permette una confusione fra ruoli, azioni e desideri. Mi viene sempre in mente quella definizione del popolo tedesco che lo rappresenta tanto sublime in ogni singolo individuo e così spregevole se preso tutto assieme. L’adolescente a volte è anche un po’ questo e bisogna tenerne conto.

D. Si dice che l’adolescenza possiede una sua specifica carica provocatrice e che rappresenta la fase della vita che più di ogni altra produce intensi processi identificatori fra il soggetto e i suoi oggetti. Sarebbe proprio questa caratteristica che attiva tanto l’interlocutore. E’ così anche per il giudice dei minori?

 

R. Sì. Alcuni giudici possono non trovarsi bene a svolgere questo lavoro perché può smuovere conflitti irrisolti del soggetto che indaga. Soprattutto nei rapporti con gli adolescenti, ma anche con i bambini e con le loro famiglie. Allo stesso modo ci sono aspettative riversate sul giudice per le quali egli può essere vissuto in senso miracolistico, come quel soggetto imparziale che risolve il conflitto che coniugi o conviventi non riescono a risolvere. Però il più delle volte prevale una difesa della propria riservatezza ed esiste una grande paura che qualcuno metta il naso nelle vicende familiari. Il giudice, dal punto di vista soggettivo, può essere vissuto come una figura da cui guardarsi perché è un po’ una schematizzazione del Super-Io. In effetti, fra le istituzioni, quella che giudica ha connotati fortemente superegoici. Così la relazione con il giudice può dipendere dal rapporto che ogni persona e ogni famiglia ha costruito con il Super- Io. Il mondo familiare è un mondo chiuso per definizione, in cui nessuno deve mettere bocca. I luoghi comuni su questa privatezza sono nei proverbi e nelle massime incise sulle mattonelle vendute nelle Fiere di paese. “I panni sporchi si lavano in famiglia” si dice, oppure “Dentro la mia casa io sono il re”, ed anche il detto poco ospitale sulla somiglianza fra ospiti e pesci finisce per inserirsi in questa difesa strenua di un ambito nel quale si può entrare se invitati (l’ospite), ma solo per breve periodo, e dove si è soggetti all’autorità assoluta del capofamiglia (il re). In tale ordine di idee è difficile accettare che ci sia un organismo statale della forza e del peso di un Tribunale che interviene ed interferisce con le decisioni e le vicende familiari. Anche nei giudici è talvolta presente il burn out che così gravemente colpisce i lavoratori delle helping professions tutte le volte che non riescono a superare l’inevitabile accumulo di frustrazioni conseguente alle difficoltà ed agli ostacoli nel raggiungimento degli obiettivi del proprio lavoro..
Il giudice che vuole svolgere bene il proprio lavoro ha bisogno di guardarsi dentro, acquisire quegli elementi che gli permettano di dialogare con le persone con cui viene a contatto e risolvere quei conflitti che possono inficiare il proprio giudizio, impedendo di vedere la realtà così come è.

Titolo originale:  Il rapporto fra la Giustizia e i Minori. Roberto Ianniello. Intervista di Emilio Masina, tratta da  http://www.psychomedia.it/aep/2002/numero-2/masina.htm

Due casi di ingerenza in procedimenti giuridici?

L’articolo “Un caso particolare di ingerenza in procedimenti giuridici?” apparso su EdizioniOggi riferisce che il senatore Stefano Pedica dell’IDV avrebbe “telefonato al Presidente del Tribunale dei Minori di Roma (dottoressa Melita Cavallo) per ottenere l’annullamento di certi provvedimenti giudiziari” volti a tutelare un bambino allontanandolo dalla madre, alla quale era stata revocata la patria potestà.   La Forze dell’Ordine hanno tentato ma senza successo; viene riferito di una successiva “campagna diffamatoria contro il Tribunale dei Minori di Roma e contro le forze dell’ordine” e della gravità delle condizioni del bambino, come emerse da una relazione del curatore nominato dal Tribunale.

La Repubblica del 7/8/2010 riferisce di un secondo caso di ingerenza dell’onorevole Pedica, che avrebbe dichiarato: «Attraverso tutte le prefetture, vigilerò ogni giorno […] bisogna negare la possibilità che il bambino venga portato in vacanza dal padre per dieci giorni».   L’ambasciata americana si astenne da reazioni ufficiali in merito al caso del piccolo Liam McCarty, al quale anche i Tribunali italiani avevano finalmente riconosciuto il diritto a ritrovare suo padre, dopo che nel 2007 il piccolo era stato portato in Italia, coinvolto in una grave falsa accusa e portato ad odiare suo padre.  I Giudici avevano capito la situazione reale e protetto Liam dalla madre, descritta su il Giornale del 3/11/2009 come “sofferente della sindrome di Münchhausen per procura: un disturbo mentale che spinge le madri ad arrecare un danno fisico al figlio per attirare l’attenzione su di sé e che costituisce un serio abuso sull’infanzia”.   Protetto dalla madre, alla quale è stata sospesa la potestà genitoriale, e curato dalla alienazione genitoriale, il piccolo Liam ha potuto felicemente passare le vacanze con suo padre, come documentato in un servizio della TV americana MNSBC:


In entrambi i casi, le madri dalle quali i Giudici hanno disposto di allontanare i figli erano assistite dall’avvocato Girolamo Andrea Coffari di Gilferraro, che presiede una onlus denominata “Movimento per l’Infanzia”.  L’avvocato sostiene di essere stato abusato in gioventù dal proprio padre ma non creduto dai Giudici ed allontanato dalla propria madre.

Per i bambini, il venire coinvolti in false accuse è un maltrattamento che può causare psico-patologie sovrapponibili a quelle causate da abusi reali.

La lettera di una bambina vittima di alienazione genitoriale

La PAS, come la pedofilia, è gravissimo abuso contro l’infanzia.  C’è chi difende le donne separate che praticano l’Alienazione Parentale (PAS), e cioè plagiano i propri figli fino a far loro odiare i loro padri.  Su un sito in cui si tenta di negare la PAS viene riportato uno scritto attribuito ad una ragazza americana di 14 anni.

Dalla storia deduciamo che da piccola venne privata del vero padre, cui la madre ha sostituito un suo nuovo “uomo”; il padre ha ottenuto che i Giudici proteggessero la figlia, che nel frattempo è diventata una ragazza di 14 anni, cui è stata diagnosticata la PAS.  Nei casi di PAS di grado grave, l’unica soluzione è l’immediato allontanamento dal genitore alienante, misura che spesso viene applicata dopo che tutte le altre strade sono fallite, fra cui il tentare di vedere se i bambini, aiutati da terapeuti, riescono da soli a riprendere contatto con la realtà.   La ragazza scrive su questo sito:

Ho avuto a che fare con molti abusi nella mia vita. Avevo solo 12 anni quando è successo a me. Ho avuto una terapeuta, J.B.. Nel 2009, avevo un appuntamento con lei in modo che potesse determinare se il ricongiungimento col mio padre biologico era possibile o no. Le ho detto almeno 50 volte che lo odiavo, che egli aveva già abusato fisicamente la mia famiglia, e che mai nella mia vita avrei accettato di ricongiungermi a lui. La pregai di non farlo, ma non mi ha ascoltato. Mi afferrò per il polso e prese a trascinarmi fuori dal suo ufficio, mi rinchiusero in una piccola stanza con mio padre biologico, e tutto questo nonostante lei avesse detto che capiva che io non avrei mai voluto ricongiungermi a lui. Ho tirato e tirato e finalmente sono riscita a liberare la mia mano dalla sua presa stretta. Lei si voltò e mi guardò con uno sguardo di puro odio e disgusto. Camminò verso di me e mise la guancia contro la mia e disse che violavo la legge se non avessi voluto stare con il mio padre biologico. Successivamente al Triad Family Services sono stata ancora una volta abusata. Mi è stato detto da tre operatrici che se non avessi fatto incontri protetti con mio padre biologico, mi avrebbero affidata a lui, e non avrei avuto più alcun contatto con mia madre. Ero terrorizzata all’idea che ciò accadesse soprattutto al ricordo di quando io ero sottoposta a regime di affido condiviso. Era sempre ubriaco, fumava, ragione per cui ho una grave forma di asma; una volta ha intrappolato le mie sorelle in un angolo con fuochi d’artificio accesi causò loro vesciche ai piedi e bruciò i loro vestiti. Alla fine ho accettato di andare agli appuntamenti protetti spinta della paura terrificante che avevo provato grazie alle loro minacce. Durante quegli incontri mia sorella ed io siamo state abusate. Mia sorella è stata molestata sessualmente da mio padre biologico ed io sono stata maltrattata verbalmente. Mi sono state dette molte cose tra cui di andare all’inferno. La terapeuta che aveva il dovere di proteggere me, era impegnata a scrivere durate quegli incontri. Io e mia sorella sono state vittime di abusi e non abbiamo assolutamente ricevuto alcuna protezione. Nei successivi incontri, ho accusato l’operatrice e mio padre biologico di tutte le situazioni di abuso che si erano verificati durante gli incontri protetti, essi hanno sostenuto che tutto ciò non era affatto accaduto e che stavo mentendo, quando in realtà non stavo mentendo affatto! Sono stata costretta contro la mia volontà ad essere violentata in un modo tale che nessun bambino dovrebbe affrontare. Non ho avuto nè giustizia nè la libertà in questi ultimi tre anni. Allora vi devo chiedere per l’ultima volta, perché una grande quantità di bambini hanno dovuto far fronte alla sfortuna di dover affrontare i pregiudizi da parte delle autorità? Perché così tante vite sono state rovinate a causa delle decisioni e delle raccomandazioni di molti terapeuti e dei tribunali di famiglia? E perché non vi è stata alcuna giustizia nel nostro paese?

Tutto ciò può avere due interpretazioni, e lasciamo all’intelligenza di chi legge capire quale sia quella giusta:

1)  Secondo femministe ed abusologi, le ragazza e sua sorella sono state realmente abusate e buy prescription drugs online violentate dal loro padre mentre le operatrici dei Servizi assistevano indifferenti o partecipavano.  Pena di morte per il padre pedofilo.

2)  La PAS ha talmente devastato la mente di questa povera ragazza che vede inesistenti abusi, addirittura in una situazione protetta, addirittura dalle tre professioniste.  Per la sua sanità mentale occorre che venga protetta dalla madre alienante.

Per chiudere con una nota positiva, ricordiamo un caso che ha avuto risalto sulla stampa italiana: un bambino rapito ed alienato da una madre descritta come “sofferente di gravi disordini della personalità”.  Abusologi vicini alla donna pubblicavano sui loro siti web le grida di odio del povero bambino contro il papà.  I giudici hanno capito che erano grida di dolore di un bambino cui veniva impedito di esprimere i suoi veri sentimenti, e lo hanno protetto dalla madre: oggi, dopo mesi di cure, il piccolo si sta riprendendo come solo i bambini sanno fare: è felice di stare con il suo papà, di telefonargli quando è lontano.

Speriamo che anche la ragazza possa essere curata, e che venga fermata la gente che ha causato e sta causando tanto male a tanti bambini.

Una domanda ai negazionisti della Alienazione Genitoriale

Galileo dovette abiurare la scoperta che la terra gira attorno al sole; la teoria dell’evoluzione di Darwin è ancora oggi negata da gruppi di ultra-religiosi; i nazisti bruciarono la teoria della relatività dell’ebreo Einstein…

Venendo ai giorni d’oggi, nel 1983 il prof. Montagnier identificò la Sindrome da Immuno-Deficienza Acquisita (AIDS) ma un gruppo di negazionisti, guidati da Eleni Papadopulos, riuscirono a convincere il governo del Sud Africa che l’AIDS non esiste: questa follia ha portato alla morte per AIDS di 330,000 sud-africani, buy drugs online no prescription fra cui molti bambini.

Negli stessi anni, il prof. Gardner identificò la Sindrome di Alienazione Genitoriale (PAS).  Il punto di vista prevalente nella comunità scientifica, in vista di un riconoscimento “ufficiale” nel DSM2013,  è che il fenomeno vada classificato come un disordine piuttosto che come sindrome.  Ma esistono negazionisti che, sulla pelle dei bambini, vogliono negarne l’esistenza!

L’Alienazione Genitoriale è il fenomeno per cui un bambino, coinvolto in una separazione conflittuale e che vive con uno solo dei due genitori che odia e denigra l’altro, finisce con il rifiutare il genitore assente, detto alienato.  Questa forma di avvelenamento psicologico fa leva sull’istinto di sopravvivenza del bambino, che percepisce di non poter esprimere l’affetto per il genitore assente, arrivando a vivere l’odio del genitore alienante ed a credere alle sue denigrazioni.  Ovviamente, si parla di PAS solo se il rifiuto non è giustificabile da reali mancanze, trascuratezze o addirittura violenze del genitore alienato.

Nei casi gravi, l’unica salvezza per il bambino è venire protetto dal genitore alienante ed affidato al genitore alienato, previo un periodo in un luogo neutro (possibilmente parenti) in cui possa ricevere il sostegno psicologico necessario a tornare alla realtà. Oltre al senso di realtà alterato, il bambino alienato e costretto ad odiare uno dei suoi amati genitori rischia anche la perdita della capacità di provare empatia, narcisismo, mancanza di rispetto per le norme sociali, paranoia.

Il Brasile ha recentemente approvato una legge moderata volta a proteggere i bambini brasiliani dall’Alienazione Genitoriale, ed anche per i bambini italiani il nostro Parlamento sta discutendo provvedimenti in materia.

La legge è ferocemente contrastata da alcune lobby (genitori alienanti, i loro avvocati, femministe, abusologi…) ed a questi negazionisti della PAS diciamo: lasciate perdere i toni da crociata e gli attacchi contro la persona del prof. Gardner.   Proviamo a discutere pacatamente i soli punti importanti, sulla base di argomentazioni logiche ed evidenze empiriche:  accettate le due frasi sopra in grassetto?