Violenza sulle donne: dati veri

Le stime proposte da diverse fonti sono fra di loro discordanti. Affrontiamo tale tema controverso e politicizzato, riportando solo i dati sicuri.

CONTEGGIO DELLE DENUNCE

Un conteggio a tappeto delle denunce è stato effettuato nel 2006 nella provincia di Verona dall’Osservatorio Nazionale Violenza Domestica che ha adottato la seguente definizione di violenza domestica:

« Ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale e riguarda tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo. »

In tale lasso temporale è stato ritenuto vittima di violenza domestica lo 0.26% della popolazione. Le vittime sarebbero per il 64% femmine, per il 34% uomini, di cui il 71% italiani.  Assunzione di alcol, “futili motivi” e problemi connessi alla separazione o alla rottura della coppia sono le motivazioni della condotta violenta maggiormente esplicitate.  Per quanto riguarda le ipotesi di reato formulate in sede penale, lo 0.0018% della popolazione ha denunciato violenze sessuali e lo 0.017% della popolazione ha denunciato maltrattamenti in famiglia.

Occorre tuttavia segnalare che Carmen Pugliese, Pubblico Ministero specializzata in reati sessuali e familiari, ha dichiarato che l’80% delle denunce per maltrattamenti sono “querele enfatizzate e usate come ricatto nei confronti dei mariti durante la separazione”. Inoltre ci potrebbero essere maltrattamenti veri non denunciati.

OMICIDI

L’unico dato certo è quello relativo agli omicidi: vengono denunciati tutti, e nessuno finge il proprio omicidio.  In Italia si verificano ogni anno circa 160 omicidi di donne (lo 0.0005% della popolazione) e 600 omicidi di uomini.  Tenendo conto che ogni anno muoiono circa 270,000 donne, gli omicidi costituiscono quindi lo 0.06% delle cause di morte femminili, rischio pari a quello di venire investiti da un trattore.  100 di questi 160 omicidi annui appaiono attribuibili a violenza domestica.  In Spagna, uno studio commissionato dal CES trova che “le donne morte per violenza domestica sono in media il 5% del totale degli omicidi”.

INDAGINI SULLA VIOLENZA DOMESTICA

Il problema della violenza domestica venne per la prima volta sollevato e studiato da Erin Pizzey, che fondò in Inghilterra il primo centro anti-violenza.  Secondo le sue osservazioni, il 62% delle donne presentatisi come vittime di violenza sono in realtà donne “inclini alla violenza” piuttosto che “vittime involontarie ed innocenti della violenza del partner”.  La prime analisi quantitativa ad ampio campionamento venne effettuata negli Stati Uniti da Straus e Gelles, trovando che episodi di seria violenza domestica sono commessi dal 4.6% delle mogli e dal 3.0% dei mariti. In Canada, le ricerche di Brinkerhoff e Lupri trovano che episodi di seria violenza domestica sono commessi dal 10.4% delle mogli e dal 4.7% dei mariti.  Sono stati effettuati circa 300 altri studi che trovano risultati comparabili (si veda: Fiebert, Martin S. References Examining Assaults by Women on Their Spouses or Male Partners: An Annotated Bibliography. Pubblicato per la prima volta in Sexuality and Culture, 1997, 1, 273-286).

Riassumendo: circa una persona su dieci, donne e uomini in misura circa uguali, sono responsabili di violenza domestica.

ITALIA PAESE PIÙ SICURO PER LE DONNE

L’Italia è uno dei paesi con minore incidenza di violenze sulle donne: riportiamo il confronto con altri paesi occidentali in merito a stupri ed omicidi:

VIOLENZA SUI BAMBINI

Per quanto riguarda la violenza sui bambini, le ricerche americane mostrano che è principalmente operata dalle madri (31.5% dei casi), da entrambi i genitori (21.3%), dalle madri ed altri (16.3%), dai padri (10.7%).  La figura è tratta dal National Child Abuse and Neglect Data System, ed altre ricerche trovano risultati simili.


Tratto da: http://www.comunicazionedigenere.com/2010/09/18/violenza-donne-dati-veri/


Come proteggere i bambini coinvolti in truffe e calunnie?

Dal 15 marzo la piccola A.C., 10 anni, si trova in una casa famiglia con divieto di incontro con genitori e familiari con un decreto emesso dal Tribunale per i minori. Grazie alle Iene che hanno smascherato la truffa ordita dalla madre, è intervenuta la giustizia che ha arrestato la donna con le accuse di truffa aggravata, falso ideologico e falso materiale in quanto la malattia che la bambina millantava non l’affliggeva nel modo più assoluto.  Il Tribunale per i minori ha deciso di adottare il provvedimento ‘perché la madre avrebbe strumentalizzato in modo riprovevole e dannoso per l’integrità psicofisica, la minore, facendole credere di essere ammalata’”. [fonte]

Purtroppo numerosi sono gli spettacoli televisivi cui la piccola ha partecipato, per cui chiunque può vedere con i propri occhi il livello di falsità in cui è stata suo malgrado coinvolta.

Per quanto le bugie della bambina suscitino commenti negativi, ricordiamo che la piccola non ha colpe proprie.  I bambini si adeguano alla realtà imposta dalle proprie figure di riferimento, nel bene e nel male.

La vicenda fa nascere due riflessioni:

  • La casa-famiglia è il provvedimento migliore per la piccola?
    Adiantum, la principale associazione a tutela dei minori, segnala che altri parenti avrebbero forse potuto prendersi cura della piccola evitandole la casa-famiglia.
  • Come mai l’allontanamento non viene adottato a tappeto anche quando una madre separata coinvolge una figlia in una calunnia (reato più grave della truffa) o in una falsa accusa contro suo padre, magari pagando uno di quegli abusologi disposti a certificare che “i bambini non mentono mai”?
    I questi casi i padri senza dubbio non sono complici della calunnia ai propri danni, per cui i loro figli possono venire salvati facendo a meno di case-famiglia.

 

Un interesse superiore del minore ormai privo di qualsiasi contenuto reale

“Sia le donne che gli uomini possono essere crudeli. L’unica cosa di cui un bambino ha davvero bisogno, i suoi genitori assieme sotto lo stesso tetto, viene minata dall’ideologia che dice di difendere i diritti delle donne.”  avvertiva Erin Pizzey, fondatrice del primo centro antiviolenza per donne vittime di maltrattamenti ed esperta di tematiche legate alla violenza domestica.

Parole forse inutili quelle della Pizzey, parole e appelli comunque inascoltati i suoi. Quanti crimini, quanti saccheggi, quanta ingiustizia, invece, sono stati perpetrati al riparo di questo  slogan abusato – l’interesse superiore del minore appunto – nel corso di interi decenni avendolo ormai (o forse da sempre) svuotato di qualsiasi reale contenuto.

Quante volte e per quanto tempo, invece, l’interesse vero dei bambini è stato la leva di battaglie di tutt’altro ordine e genere. A cominciare da quelle per i diritti femminili anni 70 dove i figli diventarono figli di una guerra senza luce e senza pietà nel naufragio di matrimoni iniziati e terminati spesso nel giro di pochi anni.

Quelle che si consumano all’interno delle separazioni sono guerre ignobile e terribili, che raccontano la folle crudeltà di un sistema che attraverso la “giustizia” riesce a creare solo dolore e ingiustizia.

Una vera cattiveria umana vissuta sulla pelle di adulti e bambini e sostenuta da un sistema folle come quello che nei nostri paesi dovrebbe garantire per prima cosa “giustizia” ai bambini, e che invece la prima cosa che regala loro è il conflitto e le relative tragedie.

Ci sono tanti genitori che, a causa di questa logica folle, hanno perso ogni contatto con i propri figli. Casi nei quali si evidenzia tutta la paradossalità della nostra cultura – una cultura che vive nella logica di identificare nelle separazioni e nel conflitto la soluzione ai conflitti e alle separazioni.

La nostra – in altri termini – è una cultura che considera normale il fare la guerra contro la guerra, o combattere la violenza con altre violenze: una logica della contrapposizione che implica solo la contrapposizione e la scissione come soluzioni alle contrapposizioni e alle scissioni.

Una cultura che non punta mai ad accrescere e integrare ciò che appare separato e in conflitto.

Ci sono figli che, in seguito alle lotte (spontanee ma piu’ spesso fomentate) fra i genitori, vengono portati per sempre in altri stati, bambini letteralmente rapiti ad un loro genitore, un genitore che oggi forse loro stessi non conoscono e non ricordano più, e che vivono all’estero, in terre assolutamente lontane.

Moltissimi i bambini italiani cui viene reso impossibile per anni incontrare uno dei due genitori.

Siamo una cultura che vive di leggi e sentenze, ma nessuno di noi vuole rispettarne davvero una, se non è quella che gli conviene. Impedire ad un figlio di frequentare l’altro genitore è un comportamento che in realtà crea una lesione profondissima dell’equilibrio di un bambino che sarà sempre un adulto amputato.

Per contro il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, implica una violazione degli obblighi di assistenza familiare: per il nostro codice e la nostra magistratura, dunque, si accudisce un bambino solo dando i soldi. Poi, si può pure sparire, o fargli sparire un genitore, e non si commette reato.

Sono tragedie disumane, queste, e ogni volta che un bambino è costretto a perdere un genitore muore un mondo.

Ma noi viviamo in una cultura che non solo è indifferente a questo, ma che addirittura ne trae profitto: il contenzioso per l’affido dei figli genera decine di milioni di euro l’anno, e nessuno vuole rinunciarci: né le lobby professionali, né coloro che traggono altri profitti, più o meno indiretti, da tutto questo.

Ci sono intere categorie che traggono potere e denaro dal permanere di questo clima di continua conflittualità nella nostra società.

Non parlo solo degli avvocati, ma anche di chi si occupa di assistenza sociale, chi si occupa di perizie, chi ha case famiglie dove ospitare i bambini vittime del disagio genitoriale.

Sono in tanti a guadagnare dalle tragedie che triturano il cuore dei bambini.

Di fronte all’immane tragedia della realtà familiare occidentale c’è chi adesso è pronto a giurare che ciò che manca è il Padre interno, quindi la capacità di crescere e di non essere figli in accontentabili e privi di regole. Figli in accontentabili, viziati, incapaci di trovare un Senso e un Logos nell’esistenza capace di definirci attraverso limiti e non soltanto bisogni.

Del resto gli stessi figli vengono ridotti a optional del passatempo, e buttati in un cassonetto se considerati un peso, un ostacolo, o anche i testimoni di una vita non goduta: la madre figlicida è sempre considerata incapace di intendere e volere, al contrario del padre figlicida che viene sempre considerato colpevole perchè capace di intendere e volere, proprio perché il figlio è considerato sempre più una cosa destinata solo ad allietare e gratificare un’esistenza.

Il Padre è una figura fondamentale, presente, come lo è quella della Madre, archetipicamente nella psiche di tutti, una figura che ci guida nel mondo mediante regole senza le quali siamo persi, che ci dà la capacità di elaborare il dolore, che ci dà stima e forza in noi stessi, e ci regala la voglia, e la possibilità, di guardare in alto, e oltre, alla ricerca di nuovi domini e nuove dimensioni da affrontare.

Perdere il Padre interno, ma anche quello esterno, vuole dire perdere il diritto alla vita, al confronto con l’esistenza, alla possibilità di vivere la propria autonomia come autonomia e non come desideri che qualcun altro ci deve soddisfare, lasciandoci alla nostra impotenza.

Chi rispondera’ di tutto questo?
Quando riusciremo a porre la parola fine al massacro?

Le domande appaiono lecite.
Le risposta, invece, ancora e nonostante tutto, tardano a venire.

gf

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“Nel nome dei Figli” testo cult sulla giustizia familiare, finalmente richiesto da case editrici a distribuzione nazionale

Ringraziamo l’autore dott. Vittorio Vezzetti per aver consentito a questo sito la pubblicazione di alcuni brevi capitoli:

E congratulazioni!  Ormai superate le 4000 copie malgrado la diffusione semiclandestina, sono iniziate a pervenire richieste da nuove case editrici a distribuzione nazionale.

Falsi certificati medici per impedire ai figli di vedere i genitori separati: che fare?

Nel paese dei falsi invalidi e del falso affido condiviso alle madri, un problema sono le madri malevole che fanno certificare false malattie dei figli in occasione di ogni “diritto di visita” (!) dei padri. Che fare?   Problema di difficile soluzione, visto che il falso certificato che consente il possesso del bambino rende impossibile una verifica indipendente del suo reale stato di salute, che nessun tribunale decreterà una visita indipendente in tempi utili.

  • Qualora il dottore non sia colluso, provare a parlarci esponendo la situazione.  Il dottore capirà di essere stato ingannato, e la seconda volta starà più attento.  Ma un dottore nel dubbio preferirà certificare malato un bambino sano piuttosto che il viceversa.  Ma una madre malevola cambierà continuamente dottore fino a trovarne uno colluso.
  • Qualora il dottore appaia colluso, è possibile incaricare un investigatore privato di verificare se il bambino malato esce di casa come se fosse sano, ed eventualmente tentare la difficile strada delle denunce opportune (falso in atto pubblico, mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice…).  Un esposto all’Ordine dei Medici darà comunque grattacapi, ma difficilmente otterrà alcun risultato (c’è chi dice che gli Ordini tutelino i propri iscritti più che la loro correttezza deontologica…).

Semplice soluzione di buon senso sarebbe che i giudici decretassero che le visite saltate per via di malattie vengono recuperate.

Chi abbia altre soluzioni legali (cioè diverse dallo sfasciare il finestrino della macchina del dottore per fargli intendere che sta abusando di un bambino) è pregato di suggerirle nei commenti.

Concludiamo con un articolo in merito tratto da Adiantum:


Proprio in merito alla questione della discriminazione, riporto quanto mi è successo recentemente, sperando di poter essere il più possibile obiettivo e, insieme, di poter sdrammatizzare una vicenda che ha dell´inconsueto, oltre che del bizzarro.

Sono seriemnte preoccupato per il proliferare di una nuova sindrome, la sindrome del PP, che sembra aleggiare anche in pediatria.

Il dott. Sinistro (lo chiamerò così, senza rivelare il suo vero nome, per rispetto alla sua professione e per tutela di mio figlio) sottoponeva mio figlio Andrea a una visita pediatrica, diagnosticando una faringite e prescrivendo una cura di antibiotici;

quattro giorni dopo, senza visitare mio figlio e di fatto confidando in modo esclusivo sui racconti telefonici della madre (e si ribadisce solo telefonici) prescriveva ancora al paziente “alcuni giorni” di riposo, sebbene egli fosse completamente sfebbrato. Con me, telefonicamente argomentava di aver preso tali decisioni “a distanza” basandosi sul credito ai racconti della madre, la quale avrebbe riferito al pediatra che il piccolo “era fiacco e molle, senza voglia di andare a scuola”;

pur prescindendo dal fatto evidente e palese che la “non volontà” dei bambini di andare a scuola non è condizione necessaria e sufficiente per dedurne situazioni di malessere dal punto di vista medico e clinico, e pur concedendo che la condotta del pediatra a riguardo delle prescrizioni “a distanza” possa essere stata motivata da una discutibile prassi operativa, ciò che più è stato spiacevole è quanto segue;

il dott.Sinistro, dopo avermi confermato che la prognosi era stata fatta “a distanza”, aggiungeva anche che la sua decisione sarebbe stata rafforzata (sono parole sue, sic!) dal “problema” che il bambino sarebbe rimasto col padre nel fine settimana, letteralmente: “poi c’è il problema che sabato il minore deve stare con il papà, con lei”.

Il dott. Sinistro pertanto ha trovato motivo di rafforzare la sua già discutibile prassi medica telefonica, facendo curiosamente riferimento non a elementi clinici, medici, misurabili, rilevabili, scientifici, bensì al management dei genitori riguardo le visite, genitori che si alternano nei fine settimana, management che nulla ha a che fare con gli aspetti medici, bensì giuridici.

Per contrasto, se si fosse trattato di un fine settimana in cui mio figlio avrebbe trascorso due giorni con la madre, viene da sospettare che il dott.Sinistro nulla avrebbe obiettato circa lo stato di salute del paziente!

Osservo: si tratta forse di una nuova sindrome, che colpisce i “numi tutelari” dei minori, quella del “padre-problema”? Sembra davvero di sì, perché ciò che è davvero stucchevole e inspiegabile è che la motivazione per cui, per il pediatra, la frequentazione con mio figlio sarebbe stata “problematica” è che il padre (sono parole del pediatra al telefono) avrebbe fatto fare al figlio una vita “normale” durante il fine settimana! Ribadisco, senza paura di essere smentito: “normale”, non “anormale”.

Non è dato a sapere che cosa volesse dire il Sinistro con questo riferimento alla “normalità” della vita, ma se con le sue parole egli voleva intendere implicitamente che il padre non sarebbe stato in grado di prendere le naturali precauzioni che si devono ordinariamente prendere per un bambino convalescente, allora è da chiedersi quali siano le ragioni cliniche, scientifiche, empiriche, conoscitive per cui nella mente del pediatra si sia formata l’immagine di un “cotal” padre, che doveva apparire nell’immaginario ascientifico del medico come uno scavezzacollo o uno scapestrato, non in grado di provvedere per sé o per gli altri, né di prevedere che, dopo una faringite, benché non vi sia più febbre, si prendano generalmente le normali precauzioni per evitare una ricaduta;

non si vuol qui minimamente supporre che il dott. Sinistro fosse in cattiva fede o si fosse fatto influenzare da possibili immagini distorte fornite dalla madre del paziente; sta di fatto che sembra obiettivamente incomprensibile la ragione per cui, nella mente di un medico, si sia creata questa immagine di un padre che sarebbe un “problema” per il figlio; forse la sindrome del PP, quella del “padre-problema?”

Inutile dire che tale immagine di “padre-problema” non trova, per il sottoscritto, alcuna corrispondenza né in sede giudiziale, né tantomeno nella realtà della vita.

 

Cassazione: un minore non è in stato di abbandono se i parenti si fanno avanti

Fermi tutti. Un minore non può essere considerato in stato di abbandono quando alcuni suoi parenti, entro il quarto grado, si siano fatti avanti e abbiano dato la disponibilità a prendersene cura. A deciderlo non senza qualche sorpresa è stata la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2102/2011. Secondo la Cassazione, tutto ciò vale anche se in passato questi parenti non hanno costruito “significativi rapporti” con il bambino. Il caso prende le mosse dalla richiesta dei nonni e degli zii materni di un bambino nato d genitori tossicodipendenti, ed imemdiatamente assegnato a una struttura assistenziale dopo a nascita.

Una sentenza importante perché segna un cambiamento di rotta nella giurisprudenza sull’argomento. Fino a ieri tribunali e Suprema Corte avevano infatti seguito l’orientamento contrario, ovvero avevano considerato adottabile il bambino anche in presenza di parenti entro il quarto grado, dando più importanza ai “significativi rapporti”. In assenza di questi, si sosteneva, non aveva senso decretare l’affidamento del minore a un parente mai visto.

La nuova sentenza stabilisce invece l’esatto contrario, in funzione della dichiarazione di disponibilità a occuparsene, se fatta entro un lasso di tempo ragionevole, e può quindi costituire la base per lo sviluppo della relazione familiare.

E’ chiaramente una sentenza che rivaluta l’importanza dei legami biologici rispetto a quelli sociali e che tenta di lasciare il più possibile il bambino, quando esistono risorse adeguate, nel suo contesto familiare.

 

Dichiarazione di adottabilità – No se i nonni ne hanno chiesto l’affidamento fino dalla nascita

Corte di Cassazione Sez. Prima Civ. – Sent. del 28.01.2011, n. 2102

Svolgimento del processo

1. Il tribunale per i minorenni di Firenze con sentenza 27 luglio 2009 dichiarava lo stato di adottabilità del minore N.S.D. , nato il (…) (e collocato sin da tale momento presso una struttura assistenziale), da A..N. e R..M. , negandone l’affidamento ai nonni ed agli zii materni che lo avevano richiesto. Il tribunale motivava la decisione con l’incapacità dei genitori, gravati da problemi di tossicodipendenza ed il padre anche da trascorsi penali, di occuparsi di lui adeguatamente, nonché dei nonni, per le condizioni di salute del nonno, l’impegno lavorativo della nonna e per i loro difficili rapporti con i genitori del minore. La sentenza veniva impugnata dalla madre del minore e dai nonni materni, G.M. e Ca. Ma., nonché separatamente dal padre. La Corte d’appello, con sentenza depositata il 31 dicembre 2009, notificata il 22 gennaio 2010, rigettava i gravami. Avverso di essa proponeva ricorso a questa Corte A. N., con atto notificato il 19/20 febbraio 2010 al P.G. presso la Corte d’appello di Firenze, alla curatrice speciale del minore, a R..M., M.G. e Ca. Ma., i quali hanno a loro volta proposto ricorso incidentale, con atto notificato alle parti anzidette in data 24 marzo 2010.

Motivi della decisione

1. I ricorsi vanno riuniti per essere decisi unitariamente ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2.1. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1, 8 e 15 della legge n. 184 del 1983. Si deduce che la sentenza impugnata si è discostata dagli orientamenti interpretativi di dette disposizioni espressi dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze nn. 15011 del 2006; 26667 del 2007; 4388 e 5739 del 1995; 12491 del 2000), secondo la quale, dovendosi preferire la crescita del minore nella famiglia naturale, lo stato di adottabilità può essere dichiarato solo ove si accerti tale impossibilità nonostante si siano sperimentati adeguati interventi di sostegno da parte dei servizi sociali e si sia verificata la impossibilità di affidamento ai nonni o altri stretti congiunti. Nel caso di specie, inoltre, in contrasto con detta giurisprudenza, non sarebbe stata accertata la permanenza al momento della pronuncia dello stato d’incapacità dei genitori naturali a crescere il minore in modo adeguato, stato d’incapacità esistente al momento della nascita a causa della tossicodipendenza – per cui il minore fu affidato a una struttura – ma successivamente venuto a cessare. Né secondo detta giurisprudenza lo stato di abbandono poteva essere legittimamente fatto derivare, come avrebbe fatto la sentenza impugnata, dalla mancanza di rapporti pregressi fra genitori e figlio, essendo questa dovuta al ricovero dello stesso, per provvedimento dell’autorità, presso una struttura; e tanto meno poteva essere fatto derivare, come ha fatto la Corte, dalla richiesta dei genitori di affidare il minore ai nonni, essendo tale richiesta conforme allo spirito della legge n. 184.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 8 e 12 della legge n. 184 del 1983, in relazione alla interpretazione data dalle sentenze nn. 1095 del 2000, 10696 del 1996 e 2397 del 1990 di questa Corte, per avere la sentenza impugnata dichiarato lo stato di adottabilità del minore nonostante la disponibilità dei nonni, sulla base dell’affermazione, non rilevante per legge al fine su detto, della mancanza di rapporti significativi con il minore.

Con il terzo motivo si denunciano vizi motivazionali per avere la sentenza impugnata incongruamente ritenuto prova dello stato di abbandono la richiesta dei genitori di affidare il minore ai nonni; per averne negato l’affidamento a questi ultimi sulla base della mancanza di rapporti significativi non dovuta alla loro volontà, ma al ricovero del minore, d’autorità, in un istituto. Parimenti incongrua, sarebbe la dichiarazione dello stato di abbandono per la mancanza di rapporti significativi del minore con la madre (stante l’avvenuto collocamento in istituto) e per avere essa preferito che fosse affidato ai propri genitori anziché collocato con lei in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Ancora incongrua sarebbe la valutazione della impossibilità di affidare il minore ai nonni per la loro conflittualità con la figlia, anche se la figlia fosse andata a vivere con loro. Inadeguata sarebbe, ancora, la valutazione del percorso di recupero compiuto da esso ricorrente, del ricomporsi del nucleo familiare con la nascita di una bambina, della ripresa della convivenza fra i genitori in una casa comune, del lavoro trovato da esso ricorrente. Privo di motivazione sarebbe il diniego della possibilità che il minore vada a vivere con loro.

2.2. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia la violazione degli artt. 1 e 8 della legge n. 184 del 1983. Si deduce che la dichiarazione dello stato di adottabilità presuppone l’impossibilità d’inserimento del minore nella famiglia di origine o in quella di parenti fino al quarto grado e il preventivo intervento dei servizi sociali a sostegno della famiglia di origine. Nel caso di specie, invece, sarebbe stato negato l’affido sia ai nonni materni che lo avevano richiesto, sia alla madre che l’aveva richiesto appena uscita dalla comunità di recupero per tossicodipendenti, come risultante dai documenti nn. 1 – 5 in atti. La mancanza di vaglio approfondito di tutte le misure alternative alla dichiarazione dello stato di adottabilità vizierebbe la sentenza impugnata.

Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 8 della legge n. 184 del 1983, per avere la Corte d’appello deciso in maniera difforme dall’orientamento di questa Corte (Cass. 21 settembre 2000, n. 1249), secondo il quale lo stato di abbandono va escluso in base all’evoluzione in positivo della situazione della madre, già tossicodipendente, risultante da documentazione (citata) in atti, nonché in base alla disponibilità dei nonni a prendersi cura del minore.

Con il terzo motivo si denuncia ancora la violazione del su detto art. 8, in relazione al mancato esame delle circostanze sopravvenute, costituite dalla ripresa della convivenza della madre del minore con il padre, in un’abitazione comune, la nascita di una bambina, la stabile situazione lavorativa del padre, il recupero dalla tossicodipendenza. In relazione a tali circostanze la sentenza impugnata avrebbe omesso di prendere in considerazione la possibilità d’inserimento del minore nella famiglia naturale con il sostegno dei servizi sociali.

Con il quarto motivo si denuncia la violazione degli artt. 8 e 15 della legge n. 184 del 1983. Si deduce che ai fini della dichiarazione dello stato di adottabilità la situazione di abbandono del minore, ai sensi del citato art. 15, deve persistere all’esito del procedimento e vi deve essere la non disponibilità ad ovviarvi. Nel caso di specie la Corte d’appello avrebbe trascurato che sia la madre che i nonni materni e gli zii erano disponibili a prendersi cura del minore. Vi sarebbe prova in atti sia del recupero dalla tossicodipendenza della madre, sia della richiesta di affidamento da parte dei nonni, avanzata già nel 2006 e reiterata nel 2008 con il deposito di istanze al tribunale per i minorenni e l’impugnazione della sentenza di primo grado. Inoltre, per quanto riguarda gli zii, vi sarebbe prova in atti della loro disponibilità a sostenere economicamente la nonna e la madre in caso di affidamento del minore.

Con il quinto motivo si denuncia la violazione degli artt. 8 e 12 della legge n. 184 del 1983, per avere la sentenza dedotto lo stato di abbandono da elementi del tutto astratti, essendo stato il minore istituzionalizzato sin dalla nascita ed essendo stata inibita ogni sperimentazione di affidamento alla madre o ai nonni. Ne deriverebbe, in contrasto con dette norme e con la giurisprudenza di questa Corte, che l’apprezzamento dello stato di adottabilità sarebbe stato svolto in base a una valutazione astratta ex ante e negando l’affidamento ai nonni e agli zii per la mancanza di rapporti significativi che lo stesso tribunale ha impedito. Non si sarebbe inoltre tenuta nel debito conto la personalità dei nonni, incensurati e dotati di stabilità economica, secondo quanto documentato in atti.

Con il sesto motivo si denunciano, infine, vizi motivazionali in relazione al fatto decisivo dell’abbandono, fondato dalla sentenza impugnata sulla inidoneità dei genitori e dei nonni a svolgere un ruolo genitoriale. In particolare erroneamente la sentenza avrebbe tratto la conclusione dell’incapacità dei genitori di curarsi del figlio dalla loro richiesta, fatta in passato in relazione a situazioni allora contingenti, di affidarlo ai nonni, piuttosto che lasciarlo in un istituto mentre essi compivano il loro percorso di recupero. La Corte non avrebbe infatti tenuto conto che allo stato, mutata la situazione, essi erano pronti a prendere il minore con sé, nella famiglia ormai ricostituita. Insufficiente sarebbe anche la valutazione d’inidoneità dei nonni a prendersi cura del minore, fondata su un conflitto con la figlia esistente nel 2006 e ormai superato, tanto che la figlia era andata a vivere con loro, prima di riprendere la convivenza con il compagno, padre della minore.

2.3. Quanto alle censure attinenti alla ritenuta incapacità dei genitori di prendersi cura del minore, vanno esaminate congiuntamente le censure contenute nel primo e terzo motivo del ricorso principale e nei sei motivi del ricorso incidentale, relative:

a) al rilievo dato dalla sentenza impugnata ai fini della declaratoria di adottabilità alla mancanza di rapporti significativi fra i nonni e il minore;

b) al rilievo negativo attribuito alla richiesta della madre del minore di affidarlo ai nonni;

c) al mancato accertamento della permanenza al momento della pronuncia della Corte d’appello della loro incapacità a prendersene cura, anche mediante il sostegno dei servizi sociali, nonostante l’evoluzione positiva rispetto alla tossicodipendenza, la ripresa della loro convivenza con la nascita di una bambina, la stabile situazione lavorativa trovata dal padre, la cessazione del conflitto della madre del minore con i propri genitori.

Al riguardo va osservato che la sentenza impugnata ha dato in proposito decisivo rilievo al fatto che gli stessi genitori, nelle conclusioni prese dinanzi alla Corte d’appello, non avevano chiesto l’affidamento del minore a se stessi bensì ai nonni materni, con ciò stesso riconoscendo la propria attuale inidoneità genitoriale. Tale argomento appare assorbente e fondato e implica il rigetto di tutti i su detti profili di censura.

2.4. Il primo e il secondo motivo del ricorso principale, nonché il primo, il quarto e il quinto motivo del ricorso incidentale vanno esaminati congiuntamente nella parte in cui censurano – formalmente sotto il profilo della violazione di legge, ma nella sostanza anche sotto il profilo motivazionale – il mancato affidamento del minore ai nonni o agli zii, attesa la loro disponibilità in proposito. Si deduce il contrasto con le sentenze nn. 1095 del 2000, 10656 del 1996 e 2397 del 1990 per avere la sentenza impugnata negato tale affidamento per la mancanza di rapporti significativi con il minore, non necessari secondo i ricorrenti a tal fine e, comunque, non dovuti al comportamento, in particolare, dei nonni, i quali avevano ripetutamente richiesto detto affidamento senza ottenerlo, preferendosi l’istituzionalizzazione del minore e così impedendosi la nascita di rapporti significativi con i nonni. Va considerato al riguardo che la sentenza impugnata ha negato la possibilità di affidamento ai nonni o ad altri componenti della famiglia materna per l’assenza di rapporti significativi con i minori. In particolare, quanto ai nonni, essendo anche tale affidamento inopportuno in relazione alle esigenze del bambino, attesa la conflittualità esistente con la figlia. In proposito va osservato che la giurisprudenza citata (nel ricorso principale), circa la non necessarietà di rapporti significativi con i nonni (e altri parenti prossimi) perché la loro disponibilità a prendersi cura del minore mediante affido faccia escludere lo stato di abbandono risulta ormai superata – anche in base al diverso principio desunto dalla modifica apportata all’art. 11 della legge n. 184 del 1983 dalla legge n. 149 del 2001 – dalla più recente e consolidata giurisprudenza di questa Corte (vedansi le sentenze nn. 17 luglio 2009, n. 16796; 9 maggio 2002, n. 6629; 8 agosto 2002, n. 11993), secondo la quale non è idonea ad escludere lo stato di abbandono la disponibilità di un parente entro il quarto grado a prendersi cura del minore ove non preesistano rapporti significativi.

La “ratio” di tale principio (che trova riscontro oltre che nell’art. 11 anche negli artt. 12 e 15 della legge n. 184 del 1983) deve rinvenirsi nella scelta del legislatore di dare rilievo preferenziale alla crescita del minore nell’ambito della sua famiglia di origine, comprensiva (secondo la disciplina dettata dalla legge n. 184 del 1983) dei parenti sino al quarto grado, quando i genitori non siano in grado di farvi fronte, nei limiti in cui ai rapporti di sangue corrispondano relazioni affettive in atto, le quali abbiano creato un legame del parente con il minore del quale sia giustificato, nel suo interesse, il mantenimento, anche al fine – eventuale e auspicabile – del pieno recupero del rapporto con i genitori, preferendosi solo in mancanza il ricorso all’istituto dell’adozione. Peraltro va considerato che il caso in cui lo stato di abbandono da parte dei genitori si determini sin dalla nascita del minore è connotato da profili particolari, non potendovi essere in quel caso preesistenti rapporti significativi fra il minore e i parenti fino al quarto grado già consolidati, ma solo la disponibilità o meno di tali parenti a prendersi cura del minore instaurandoli, così offrendo la possibilità – preferenziale nel sistema della legge n. 184, che considera residuale il ricorso all’istituto dell’adozione – di permanenza e crescita del minore nella famiglia naturale. In tal caso la concreta manifestazione di detta disponibilità entro un termine ragionevolmente breve dalla nascita comporta che il minore non possa essere ritenuto in stato di abbandono, salvo che si accerti, in relazione alla specifica situazione del caso, la inidoneità dei parenti ad assicurarne l’assistenza e la crescita in modo adeguato. In quest’ultima ipotesi, ove vi sia, nel corso del procedimento, reiterazione della richiesta di affidamento – come nella specie viene dedotto, allegandosi il sopravvenire di fatti nuovi che escluderebbero il persistere delle ragioni ostative all’affidamento – perché questo possa essere disposto, vanno accertati il venir meno delle ragioni che lo avevano in precedenza impedito e va valutato, con idonea motivazione, l’operato dei parenti in questione in relazione al loro impegno, quale emerge dal complesso del loro comportamento – anche processuale – nel cercare di porre in essere rapporti significativi con il minore, tenendo conto del contesto dei provvedimenti adottati. Nel caso di specie la sentenza impugnata risulta carente dal punto di vista motivazionale, in relazione ai su detti principi, avendo negato l’affidamento ai nonni in base alla mancanza di rapporti significativi con il minore, nonostante la disponibilità da loro affermata a prendersene cura sin dalla nascita e la reiterazione nel corso della procedura di tale disponibilità, la loro frequentazione, sia pure non assidua, del minore presso la struttura dove il bambino era ricoverato, dandosi – al fine della reiezione della loro domanda di affidamento – rilievo a uno stato di conflittualità con la madre del minore che dalla stessa sentenza risultava ormai superata, essendo essa andata a vivere con i propri genitori abbandonando la comunità dove viveva, prima di ristabilire la convivenza con il proprio compagno.

La sentenza va pertanto cassata, in relazione ai profili indicati, con rinvio alla stessa Corte d’appello di Firenze in diversa composizione che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La corte di cassazione Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti e delle persone indicate nella sentenza. Depositata in Cancelleria il 28.01.2011

Fonte: http://www.adiantum.it/public/2419-cassazione,-un-minore-non-è-in-stato-di-abbandono-se-i-parenti-si-fanno-avanti.asp

Padre chiede aiuto a centro anti-violenza e subisce false accuse

Alla fine il Tribunale affiderà i figli al padre, trovando che “i bambini sono vittima di violenza da parte della madre”, fra cui colpirne uno “con spatole e cucchiai, lasciando lividi”.

Ma, quando nella primavera 2007 i bambini iniziano a dire di voler evitare la madre per la propria sicurezza ed il padre decide di fare i passi necessari, dopo aver informato la moglie che avrebbe lasciato la casa coniugale con i figli, contatta un centro anti-violenza, implorando aiuto.

Viene deriso.  Di nascosto avevano già preso la donna solo la loro ala, istruendola su come fare accuse di violenza domestica contro la vittima dei suoi continuati abusi.

Il 24 Aprile la coppia arriva alla rottura totale; la donna esce per strada, promettendo di uccidere i poliziotti ed accusando il marito di stupro e pedofilia.

Riguardo alla seconda accusa, il tribunale concluderà che “le accuse erano false e la signora lo sapeva.  Ha mostrato capacità di fabbricare accuse”.

Sorprendentemente l’accusa di stupro di una donna sgangherata viene considerata credibile; il marito viene arrestato.  Sapendo che il centro anti-violenza cerca fondi, la donna si permette di venir persuasa a fare luride accuse di violenza sessuale, vergognosamente amplificate dalla prosecutrice legale.

I fatti che la donna era una abusatrice di bambini, che mancava qualunque conferma alle sue parole, che aveva rifiutato di sottoporsi ad esami medici volti a stabilire se era stata stuprata, che era probabilmente motivata dalla disputa per la custodia dei figli, che era nota ai vicini come “quella donna pazza” non trattenne i media a caccia di sangue.

La prosecutrice tenne nascosti fatti chiave a discolpa, portando la Corte Suprema del Maine a punire la sua cattiva condotta ed ad annullare il processo (documenti legali; petizione per la radiazione della prosecutrice).

Estratto e tradotto da “Abuse shelter exploits mentally-ill woman to push political agenda”, a firma di C. Roberts

“Dobbiamo debellare il femminismo per salvare la famiglia”

Intervista ad una delle donne sopravvissute al blitz con il quale le femministe si sono impadronite dei centri anti-violenza riducendoli a centri di odio contro gli uomini e contro la famiglia.

«Sono totalmente d’accordo con Erin Pizzey: il femminismo sta distruggendo la famiglia.

Ero con Erin (che ha aperto il primo centro anti-violenza) quando venimmo attaccate dalle femministe.  Fummo colpite da una banda urlante con capelli rasati che aveva totalmente dimenticato la propria femminilità.  Fu spaventoso.

Vidi quello che scrissero sui muri: “uomini non saprete più quale sarà il vostro ruolo nella famiglia”.  Ora – molti anni dopo – il femminismo è diventato realtà.  Gli uomini non sanno più quale ruolo hanno, specialmente all’interno della famiglia.  La situazione è così degradata che alcuni rifugi rifiutano i bambini maschi, e le bambine crescono credendo che tutti gli uomini sono cattivi.

L’effetto a catena ha distrutto la vita familiare, fatta di amore e di ruoli.  Gli uomini si trovano davanti donnacce bolsceviche che rifiutano di cucinare, pulire, contribuire in qualunque modo alla vita familiare.

Tutto quello che vedo nelle femministe è la malvagità — prima viene fermato e meglio è.  Torniamo all’amore, alla donna gentile, carina, che è orgogliosa di essere donna.

Dianne Core, York»

Ed in effetti le femministe stesse hanno esplicitato le loro vere intenzioni:

«La famiglia nucleare dev’essere distrutta… qualunque sia il significato finale, lo sfascio delle famiglie è adesso un processo obiettivamente rivoluzionario». Linda Gordon

«Dal momento che il matrimonio costituisce una schiavitù per le donne, è chiaro che il Movimento delle Donne debba concentrarsi per attaccare questa istituzione. La libertà per le donne non potrà essere acquisita finché il matrimonio non verrà abolito». Sheila Cronan

«Non si dovrebbe permettere a nessuna donna di stare a casa ed accudire i suoi bambini. Le donne non devono avere questa possibilità, perché altrimenti troppe donne la sceglierebbero». Simone de Beauvoir

«Essere una casalinga è una professione illegittima. La scelta di servire ed essere protetta, e di pianificare una vita familiare è una scelta che non dovrebbe esistere. Il cuore del femminismo radicale è di cambiare tutto ciò». Vivian Gornick.

«Non possiamo distruggere le iniquità fra gli uomini e le donne finché non distruggeremo il matrimonio». Robin Morgan (Sisterhood Is Powerful).

«Il matrimonio è da sempre esistito per il beneficio degli uomini; ed è stato un metodo legalmente sanzionato per controllare le donne… Dobbiamo distruggerlo. La fine dell’istituzione del matrimonio è una condizione necessaria per la liberazione delle donne. È per noi quindi importante incoraggiare le donne a lasciare i loro mariti e non vivere da sole con gli uomini… Tutta la storia dovrà essere riscritta in termini di oppressione delle donne» dalla “Dichiarazione di Femminismo”.

«Affinché i bambini vengano cresciuti con parità, dobbiamo portarli via dalle famiglie e crescerli in comuni appositi». Mary Jo Bane.

«La cosa più misericordiosa che una famiglia numerosa possa fare ad uno dei suoi bambini più piccoli è ucciderlo». Margaret Sanger, in “Donne la nuova razza”, pag. 67.

«Sotto il patriarcato ogni donna è una vittima, del passato, del presente e del futuro. Sotto il patriarcato, la figlia di ogni donna è una vittima, del passato, del presente e del futuro. Sotto il patriarcato il figlio di ogni donna è il suo potenziale traditore e anche l’inevitabile stupratore o violentatore di un’altra donna». Andrea Dworkin

«Qualsiasi rapporto sessuale, anche il sesso consensuale all’interno del matrimonio, è un atto di violenza perpetrato contro una donna». Catherine MacKinnon

 

Il mistero dell’informativa ufficiale censurata: violenza sulle donne allarme sociale gonfiato, incentivi per false denunce

C’è qualcosa da salvare nel femminismo, l’ideologia che si è appropriata dei centri anti-violenza?  Questa vicenda suggerisce di no.   Più di 30 associazioni femministe spagnole hanno ottenuto la censura di una informativa ufficiale firmata dalla dott.ssa Tatiana Torrejón Cuéllar per il Consejo Económico y Social (CES) de la Comunidad de Madrid, un organo consultivo. Il titolo del documento ufficiale era “Tratamiento de la violencia de género en España y en la Comunidad de Madrid”.

Il contenuto viene così descritto nel corso di un dibattito televisivo sulle false denunce: “esponeva i meccanismi di frode stabiliti per incentivare le denuncie false”.  Siamo riusciti ad averne una copia che pubblichiamo su questo link e ne traduciamo alcune frasi:

le cifre non sono tanto allarmanti come si pensava inizialmente. […]

In questi ultimi anni le norme processuali sono state interpretate in un percorso favorevole alle vittime di violenza domestica, fra cui il riconoscere efficacia probatoria in giudizio ad una chiamata al 911. […]

Le donne morte per violenza domestica sono in media il 5% del totale degli omicidi.  Vediamo quindi che la percentuale è molto poco significativa rispetto al totale, pur producendo un grande allarme sociale. […]

l’attenzione ed il trattamento che si è prestato a questo problema non è giustificata da un aumento significativo delle cifre rispetto al totale degli omicidi, ma piuttosto dall’allarme sociale causato dai mezzi di comunicazione e la consequente attenzione dei politici di turno. […]

Le donne che denunciano il maltrattatore lo fanno perchè necessitano di mezzi di protezione contro future aggressioni e/o per beneficiarsi di alcuni dei privilegi che porta la legge. […]

Questo può generare incentivi perversi: che le sedicenti vittime fingano di esserlo per beneficiare ad esempio di aiuti economici. […]

Secondo la Legge di Protezione Integrale, la violenza di genere è una “manifestazione della discriminazione, della situazione di diseguaglianza e delle relazioni di potere degli uomini sopra le donne”, ed in base a questa considerazione soggettiva si sviluppa tutto il sistema delle politiche pubbliche: sfruttamento di prestazioni economiche, benefici sul lavoro, mezzi di tutela giudiziaria ed istituzionale. […]

con gli aiuti pubblici si motivano le donne a preferire dirsi vittime di “violenza di genere” per ottenere tutti i benefici menzionati con sforzo minimo, piuttosto che a sforzarsi a conseguire un lavoro migliore, uno stipendio migliore, o migliori condizioni di lavoro. […]

Occorrerebbe che le vie di accreditazione delle situazioni di violenza esercitate sulle lavoratrici siano concordanti e ratificate da una sentenza. Altrimenti si stanno dando incentivi affinché le donne (lavoratrici in proprio, dipendenti, funzionarie pubbliche e disoccupate) presentino denunce allo scopo di ottenere alcuni dei benefici menzionati.

In sostanza, l’informativa censurata riconosceva ufficialmente ciò che giornalisti e magistrati privatamente vanno pubblicamente denunciando e che era stato profeticamente previsto: una legge sessista che permette alle donne di proclamarsi vittima senza alcuna prova ottenendo vantaggi personali considerevoli ha portato ad una epidemia di denunce false, ed a gravi abusi contro uomini e bambini innocenti.



Originale in spagnolo:

las cifras no son tan alarmantes como se pensaba inicialmente […]
han interpretado normas procesales en un sentido favorable a las víctimas de violencia doméstica, tales como otorgar eficacia probatoria en juicio a la llamada al 911 efectuada por una víctima de violencia doméstica
las mujeres muertas por violencia doméstica representan en promedio un 5% con respecto al total de homicidios. Con estos resultados comprobamos que el porcentaje es muy poco significativo con respecto al total, y sin embargo produce una gran alarma social.
la atención y el tratamiento que se le ha prestado, no va en razón de un aumento considerable de las cifras con respecto al total de homicidios cometidos en este país, sino más bien por la alarma social causada por los medios de comunicación y la consiguiente atención de los políticos de turno
Las mujeres que denuncian al maltratador, lo hacen porque necesitan alguna medida cautelar para prevenir futuras agresiones y/o porque requieren beneficiarse de alguno de los privilegios que le brinda la ley.
Esto puede generar incentivos perversos: que las supuestas víctimas fingan serlo para beneficar- se de una ayuda económica por ejemplo.
Según la Ley de Protección Integral, la violencia de género es una “manifestación de la discrimi- nación, la situación de desigualdad y las relaciones de poder de los hombres sobre las mujeres”, y es sobre esta consideración subjetiva que descansa todo el conjunto de políticas públicas: disfrute de prestaciones económicas, beneficios laborales, medidas de tutela judicial e institucional.
También está la interrogante si con las ayudas públicas se está motivando a que las mujeres en vez de esforzarse por conseguir un mejor empleo, una mejor remuneración o mejores condiciones laborales, prefieran ser víctimas de “violencia de género” para así obtener todos los mencionados beneficios con menor esfuerzo.
debería requerirse que las vías de acreditación de la situaciones de violencia ejercida sobre las trabajadoras –orden de protección e informe del Ministerio Fiscal– sean concordantes y ratificadas por una sentencia.De lo contrario, se estarían dando incentivos para que las mujeres (trabajadoras por cuenta ajena, por cuenta propia, funcionarias públicas y las que no trabajan) presenten denuncias con el fin de obtener alguno de los beneficios ya mencionados.

La paternità negata di Gianluca Schiavon e "Il bambino del mercoledì". A Matrix il 31-03-2011 (parte 3)

Matrix 31-03-2011. Le premesse per una buona audience c’erano tutte: un pò di provocazione (avv. Bernardini De Pace), l’autorevolezza (avv. Gassani), l’equilibrio e la ragionevolezza (Timperi) e la mamma famosa (Lucarelli), ma chi ha visto la trasmissione non si aspettava certo che il ruolo da protagonista lo assumessero due ingredienti che lo chef di Matrix/Canale5 non aveva previsto: il “caso umano” (Schiavon) — il cui racconto ha spiazzato tutti e ha aperto uno squarcio insanabile tra ciò che la gente non sapeva, e ciò che adesso sa -, e le lacrime di Tiberio Timperi.

Chi aveva qualche dubbio sull’autenticità delle motivazioni del noto giornalista, impegnato sempre di più nella campagna di sensibilizzazione delle Istituzioni verso il vero affido condiviso, si è dovuto ricredere.

Durante il racconto del genitore/Schiavon, durante il quale si raccontava l’ultima telefonata intercorsa con il figlio (che mimava una segreteria telefonica, in preda alla più totale alienazione genitoriale) c’era una sola persona con le lacrime agli occhi, ed era Tiberio. A dire il vero, anche il conduttore era particolarmente scosso da quel racconto, dall’auto-analisi con cui era stato meditato per anni e dalla forza dirompente che solo la verità sa attribuire alle parole.

Chi ha vissuto un grande dolore sulla propria pelle non rimane mai freddo di fronte ad una storia così forte, anche se la sofferenza ha lasciato il posto alla ragionevolezza e alla determinazione a cambiare le cose. Le lacrime di Timperi non sono soltanto una testimonianza del dolore personale, ma il simbolo del pianto di tutti gli italiani che sbattono quotidianamente contro il muro di gomma della malagiustizia familiare.

Negli ultimi vent’anni abbiamo ascoltato spesso un utile refrain: cambiare si può. Grazie a questa consapevolezza è arrivata la legge sull’affido condiviso, che però non ha cambiato nulla nella pratica più becera dei tribunali civili. Però ha cambiato molte coscienze, e la commozione di Timperi ne rappresenta una bella fetta.

Adesso, di fronte a tanto dolore diffuso, è arrivato il momento di cambiare il refrain: cambiare si deve.

“IL BAMBINO DEL MERCOLEDÌ” di Gianluigi Schiavon

Il libro racconta una storia che colpisce allo stomaco. La storia è quella del piccolo Giò e del suo babbo separato, il Signor B.

Una vicenda di ordinaria e straordinaria ingiustizia, che trasforma la vita di un bambino in un percorso a ostacoli popolato di angeli e di demoni.

I primi, in questa guerra chiamata separazione, lo difendono, gli altri lo tormentano. Giò e il Signor B lottano per restare insieme. Scendono in campo anche magistrati e assistenti sociali capaci di azioni tanto efferate sulle spalle di un bambino in età da scuola materna, da riuscire a trasformare il suo rapporto con il padre in un vicolo cieco, talmente disseminato di trappole da rendere le loro visite un giallo.

Dalla notte della Vigilia di Natale, in cui il bambino fu strappato ai suoi regali e ai suoi affetti, fino agli incontri protetti, e al giorno in cui il piccolo Giò si vide improvvisamente e senza ragione negata la possibilità della consueta visita settimanale.

Assieme a tutto il resto.

E si ritrovò a protestare, e piangere, e fra le lacrime urlare: “Ma domani è mercoledì!”

Titolo : “Il bambino del mercoledì”
Autore : Gianluigi Schiavon
Editore : Giraldi Editore
Anno : 2008

Gianluigi Schiavon, nato a Padova, vive a Bologna. Giornalista de “Il Resto del Carlino”, ha lavorato anche a “La Repubblica”, “Il Gazzettino” e per varie riviste.
Per Giraldi ha pubblicato il romanzo “50 minuti. L’inganno nel cassetto”, surreale storia di un morto che continua a vedere e sentire ciò che accade intorno a lui.

[Fonte http://www.giraldieditore.it/index.php?option=com_content&view=article&id=398%3Ail-bambino-del-mercoledi&catid=45%3Aopere&Itemid=1]