La storia di un allarme inutile e diffamatorio. L'"emendamento" 1707 del 2010 erroneamente chiamato "salva-pedofili"

La questione è semplice: a partire dall’estate scorsa girava questa storia dell’emendamento 1707 pro-pedofili.  C’era un appello che gridava allo scandalo, ma soprattutto chiedeva alla gente di annotarsi i nomi dei senatori firmatari dell’emandamento. Il tutto in perfetto stile linciaggio.

In realtà la questione, come spiega Paolo Buscaglino è molto, molto diversa, e quell’emendameno non era assolutamente pro-pedofili. Vediamo [Fonte]

La bufala dell’emendamento salva-pedofili

di Paolo Buscaglino:

Da giorni circolava in rete questo messaggio:

« EMENDAMENTO 1707: NIENTE OBBLIGO DI ARRESTO PER CHI VERRA’ SORPRESO A COMPIERE VIOLENZE SESSUALI “DI LIEVE ENTITA’ ” VERSO I MINORI.

Firme in calce all’emendamento: Gasparri (PdL), Bricolo (Lega), Quagliariello (PdL), Centaro (PdL), Berselli (PdL), Mazzatorta (Lega), Divina (Lega) VERGOGNATEVIIII BESTIEEEEE E VOI CONTINUATE A VOTARLI!!!!!! »

…e nulla più. Anche cercando in rete, si trovavano solo commenti, indignazione, ironia… ma da nessuna parte saltava fuori il testo originale dell’emendamento, che sarebbe stato ritirato a furor d’opposizione. La versione più completa dell’appello risultava questa:

« VIOLENZA SESSUALE “LIEVE” AI MINORI: ECCO I NOMI DEI SENATORI!Si erano inventati un emendamento proprio carino.
Zitti zitti, nel disegno di legge sulle intercettazioni avevano infilato l’emendamento 1.707, quello che introduceva il termine di “Violenza sessuale di lieve entità” nei confronti di minori.
Firmatari, alcuni senatori di Pdl e Lega che proponevano l’abolizione dell’obbligo di arresto in flagranza nei casi di violenza sessuale nei confronti di minori, se – appunto – di “minore entità”.
Senza peraltro specificare come si svolgesse, in pratica, una violenza sessuale “di lieve entità” nei confronti di un bambino.
Dopo la denuncia del Partito Democratico, nel Centrodestra c’è stato il fuggi-fuggi, il “ma non lo sapevo”, il “non avevo capito”, il “non pensavo che fosse proprio così” uniti all’inevitabile berlusconiano “ci avete frainteso”.
Poi, finalmente, un deputato del Pd ha scoperto i firmatari dell’emendamento 1707.Annotateli bene:

sen. Maurizio Gasparri (Pdl),
sen. Federico Bricolo (Lega Nord Padania),
sen. Gaetano Quagliariello (Pdl),
sen. Roberto Centaro (Pdl),
sen. Filippo Berselli (Pdl),
sen. Sandro Mazzatorta (Lega Nord Padania) e il
sen. Sergio Divina (Lega Nord Padania).

Per la cronaca, il sen. Bricolo era colui che proponeva il “carcere per chi rimuove un

LA CAMPAGNA DIFFAMATORIA

crocifisso da un edificio pubblico” (ma non per chi palpeggia o mette un dito dentro ad una bambina);
il sen. Berselli è colui che ha dichiarato “di essere stato iniziato al sesso da una prostituta” (e da qui si capisce molto…);
il sen. Mazzatorta ha cercato di introdurre nel nostro ordinamento vari “emendamenti per impedire i matrimoni misti”;
mentre il sen Divina è divenuto celebre per aver pubblicamente detto che “i trentini sono come cani ringhiosi e che capiscono solo la logica del bastone”
(citazione di una frase di Mussolini).
Complimenti alle carogne. »

Peccato che, così come formulato, il testo sia l’ennesima bufala, che si è diffusa a macchia d’olio senza che fosse possibile verificarla. I sospetti mi venivano dall’enormità di quel “l’abolizione dell’obbligo di arresto in flagranza nei casi di violenza sessuale nei confronti di minori”, dall’invito all’annotarsi i nomi e dall’assenza di rifrimenti al testo incriminato, che avrebbe dovuto essere invece la prova del misfatto.

Dopo lunghe ricerche, ho trovato il link alla discussione avvenuta in Senato sull’argomento – http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=16&id=483752 – da cui emerge una realtà molto diversa.

Anzitutto, emerge che non si parla affatto di “violenza sessuale di minore entità” bensì di “atti sessuali di minore gravità”, che non è la stessa cosa come vediamo subito:
ciò che determina la “minore gravità”, infatti, è il fatto che tali atti siano compiuti tra quasi coetanei entrambi consenzienti!

Infine, risulta che il concetto di “minore gravità” non viene introdotto ex novo ma è già presente nel Codice Penale – http://www.usciamodalsilenzio.org/rassegnastampa/articoli-codice-penale.pdf – e si trattava solo di applicarvi la non obbligatorietà (che non vuol dire esclusione assoluta) di arresto.

Analizziamo nel dettaglio questi punti, attingendo alla relazione del Senato:

« Il presidente BERSELLI, nell’avvertire che si passerà all’illustrazione dei subemendamenti all’emendamento 1.707, sollecita l’attenzione dei colleghi su questa disposizione, osservando come in questo caso si trovi di fronte al problema di un grave travisamento da parte dell’opinione pubblica e degli organi di informazione circa gli scopi di questo emendamento, che è stato da più parti presentato come una sorta di disposizione favorevole ai pedofili, proposta sulla base di fantomatiche pressioni da parte di ambienti vaticani, e sarebbe pertanto opportuno lavorare in vista di una formulazione che non lasciasse dubbi sulle reali intenzioni dell’emendamento.
Il relatore CENTARO (PdL) ricorda che l’emendamento è stato presentato sostanzialmente per ragioni di armonia del sistema: infatti, come è noto, l’articolo 380 del codice di procedura penale non prevede il reato di atti sessuali con minorenni, di cui all’articolo 609-quater, fra quelli per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, mentre lo prevede per la violenza sessuale, di cui all’articolo 609-bis, escludendo però la predetta obbligatorietà per i casi di minore gravità: era quindi logico che, una volta inserito il reato di cui al 609-quater fra quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, che venisse prevista un’analoga causa di esclusione. »

Traduzione: in origine il c.p.p. prevedeva l’arresto in caso di atti tra maggiorenni, mentre non lo prevedeva per quelli tra minorenni. A questa mancanza è stato posto rimedio, ma in modo asimmetrico: per i maggiorenni, infatti, la legge prevedeva già la non obbligatorietà dell’arresto per i casi “di minore gravità” (quelli non violenti) mentre per i minorenni, no.

[Ndr. Preciso meglio: l’obbligo di arresto è previsto dall’art. 380 c.p.p. comma 2 lettera d-bis) per i reati di violenza sessuale, escludendo – già ora! – i casi di minore entità. Col comma 22 del ddl 1611 in discussione veniva aggiunto l’obbligo di arresto anche per il reato di atti sessuali (non violenza sessuale). Ma si erano dimenticati di escludere anche per questo reato i casi di minore entità, come per la violenza sessuale.  Così che ci sarebbe stato l’assurdo per cui conveniva dire che c’era violenza anche se non c’era stata].

La cosa viene spiegata da un senatore del Partito Democratico, non certamente filogovernativo, che pur criticando la forma riconosce la bontà delle intenzioni:

« Dopo un intervento del senatore CASSON (PD), il quale ritiene che il problema che ha determinato la presentazione dell’emendamento, e cioè la necessità di evitare l’arresto obbligatorio in caso di rapporti fra adolescenti… »

Seguono le valutazioni nel merito – su cui sorvolo, tanto ho linkato la relazione completa – da cui però emerge non una barricata a difesa dei fanciulli minacciati dagli orchi berlusconiani avidi di vittime per i loro amici preti, bensì una banale critica sulla formulazione del testo con richiesta di accantonarlo provvisoriamente per giungere ad una versione che, pur mantenendo la distinzione tra atti di pedofilia vera e propria e intimità tra minorenni, eviti fraintendamenti che possano aprire pericolose scappatoie.

« Dopo interventi della senatrice DELLA MONICA (PD) e del senatore CASSON (PD), i quali ritengono che il problema possa essere meglio affrontato intervenendo sul codice penale, la senatrice FINOCCHIARO (PD) osserva come, per quanto riguarda l’articolo 609-bis, la questione della minore gravità si riferisce essenzialmente alla condotta del reato, e di fatto si ricollega alla caduta della distinzione fra due diversi tipi di reato a seconda che si fosse consumata o meno la congiunzione carnale, distinzione che ricorreva prima della riforma del 1996, con i reati rispettivamente puniti dagli abrogati articoli 519 e 521 del codice penale.


Nel caso però dell’articolo 609-quater questo problema si sovrappone a quello dell’età dei soggetti coinvolti e della necessità di non criminalizzare i rapporti fra adolescenti, problema che all’epoca venne risolto in maniera probabilmente insoddisfacente e poco elastica; del resto non è solo in questa circostanza che ella si è posta il problema di come modificare il terzo comma dell’articolo 609-quater, una questione certamente di non facile soluzione. »
La replica evidenzia che anche la scelta di intervenire sul Codice Penale ha i suoi rischi, ma soprattutto fa un esempio concreto di cosa sia un atto “di minore gravità”:

« Il relatore CENTARO (PdL) osserva come gli interventi sul codice penale, magari opportuni, rischiano di lasciare irrisolte alcune questioni che il suo emendamento si proponeva di riservare alla prudente valutazione del giudice. Ad esempio, laddove si decidesse di allargare la sfera di non punibilità per i minorenni, resterebbe il rischio di dover disporre l’arresto obbligatorio per un ragazzo di 18 anni sorpreso ad accompagnarsi con una tredicenne.

Il senatore LONGO (PdL) rileva come nell’affrontare questa materia si debba tener conto del fatto che, a seguito della soppressione della distinzione tra violenza carnale e atti di libidine violenta, negli ultimi 14 anni la giurisprudenza ha elaborato una nozione estremamente lata di atti sessuali, il che induce a valutare con attenzione le conseguenze che avrebbe la mancata valutazione, ai fini dell’obbligatorietà dell’arresto in flagranza dell’esistenza di ipotesi di minore gravità. »

In particolare, l’intervento di Longo evidenzia la differenza tra “violenza carnale” e “atti sessuali”; riferendoci ai maggiorenni (per i quali la legge è già completa) va ricordato, infatti, che tra gli “atti sessuali” sono compresi la mano morta, la carezza, i fischi d’apprezzamento e in certi casi addirittura gli sguardi indiscreti. Tutti “atti” che sono indubbiamente di “minore gravità” rispetto ad uno stupro; e non sarebbe sensato prevedere l’arresto obbligatorio per aver fischiato al passaggio di una bella ragazza…

A questo punto, evidenziata la complessità della materia e la non precisa formulazione che potrebbe dar adito a fraintendimenti, viene proposto di ridiscuterne in seguito. La proposta è ragionevole e viene prontamente accolta.

La questione, in Senato, finisce così; inizia la campagna di criminalizzazione a mezzo internet…

Il che riporta al concetto dell’uso incontrollato di internet come pericolo per la democrazia, altra materia delicatissima che prima o poi dovrà essere affrontata seriamente. Perché se è così facile creare mostri da additare al pubblico disprezzo, è altrettanto facile manipolare l’opinione pubblica (e quindi gli elettori) attraverso la diffusione di “notizie false e tendenziose” come questa…

Una cosa possiamo farla noi utenti fin da subito, però: evitare di diffondere appelli clamorosi senza aver verificato adeguatamente le fonti e cercare di smontare quelli diffusi da altri. Ad esempio linkando questa nota…

PS) Tutto il testo del famigerato emendamento 1.707 (riportato tra gli allegati nel primo link) si riduce a questa frase: “Al comma 22, dopo le parole: «dall’articolo 609-quater» inserire le seguenti: «, escluso il caso previsto dal quarto comma».” riferita all’articolo del Codice Penale riportato nel secondo link.

[Fonte]

Il Canada stringe sugli infanticidi. Niente più sconti di pena né attenuanti per le madri omicide

Madri che sfuggono alla pena per omicidio

Il Consiglio Canadese per i Diritti dei Bambini prende posizione per l’eliminazione dal codice penale del Canada del reato di infanticidio

Il Consiglio Canadese per i Diritti dei Bambini sostiene che la vita di un neonato vale quanto quella di un adulto e che il reato penale di infanticidio deve essere eliminato dal codice penale del Canada.
Gran parte degli aspetti e condizionamenti sociali sono cambiati e la situazione delle neo-madri sono molto migliorate nel tempo, considerando, ma non solo: lo stigma storico della ragazza madre o fuori dal matrimonio; l’attuazione di un sistema di assistenza sociale universale; la scelta e disponibilità dell’aborto per le madri che non desiderano esserlo; gli attuali metodi di controllo delle nascite e l’uguaglianza delle donne sono alcuni dei motivi per l’eliminazione di quella particolare attenzione alle donne che fissa un massimo di 5 anni di reclusione per le madri che uccidono i loro bambini. Le stesse accuse di omicidio dovrebbero valere per neonati, bambini ed adulti.
Storicamente, le donne erano trattate come inferiori e meno responsabili delle proprie azioni rispetto agli uomini. Il reato di infanticidio è una discriminazione basata sul sesso, una violazione della Carta Canadese dei Diritti e delle Libertà.

Il Codice Penale del Canada prevede, per la difesa di tutte le persone accusate di reati penali, una serie di attenuanti che diminuiscono la responsabilità sulla base della malattia mentale. La depressione post-partum, chiamata anche la depressione “postnatale”, subita da alcune donne – ed anche da alcuni uomini – dopo la nascita dei bambini, è un argomento che può essere gestito dalla difesa ai fini delle attenuanti nell’ambito del processo.

Quando la polizia e gli avvocati della Procura imputano la madre di infanticidio, fissano già un elemento di predeterminazione del suo stato mentale al momento dell’omicidio. Un’imputazione del genere non esiste riguardo all’omicidio di un adulto. Se così fosse, l’autore dell’omicidio sarebbe una persona malata di mente. Per questo motivo la giustizia lascia tale giudizio alla sentenza del giudice, che considera tutte le prove degli esperti in maniera imparziale, senza l’influenza o la predeterminazione dell’imputazione.
Questa posizione è coerente con quella delle Nazioni Unite.
Dal compendio 2 “Bambini e Violenza” dell’UNICEF (Nazioni Unite)
Infanticidio ed omicidio di bambini

“Un’analisi di 285 omicidi di vittime di età inferiore ai 18 anni, commessi nel Regno Unito tra il 1989-1991, ha trovato che solo il 13 per cento delle vittime erano state uccise da sconosciuti; il 60 per cento erano state uccise dai genitori. Sono stati riscontrati 56 risultati simili negli Stati Uniti e in Australia. Nei paesi in cui vengono analizzate le statistiche di omicidi secondo l’età della vittima, i neonati e i bambini molto piccoli si trovano spesso ad essere il gruppo di età più a rischio. Nel Regno Unito, i bambini di età inferiore all’anno sono quattro volte più a rischio di essere vittime di omicidio che qualsiasi altro gruppo di età; la maggior parte uccisi dai loro genitori.
In molte normative giuridiche l’infanticidio viene ritenuto come un delitto minore, anche quando comporta l’uccisione intenzionale di un bambino. La logica è quella di provvedere ad una difesa speciale per le mamme che soffrono dei traumi psicologici a causa della nascita. Tuttavia, in molte di queste stesse normative giuridiche, ci sono per la difesa attenuanti che riconoscono la diminuita responsabilità alle accuse di omicidio e che possono essere applicate in casi particolari. Appare quindi evidente che la radice dello status speciale di questo crimine risale al fatto che la vita di un neonato ha meno valore di quella di una persona più adulta.
Contrariamente alla consueta ipotesi che l’infanticidio sia un problema del mondo orientale piuttosto che del mondo occidentale, nella sua opera “Storia dell’Infanzia” Lloyd de Mause documenta che l’infanticidio di bambini legittimi ed illegittimi”…era una regolare pratica dell’antichità; l’uccisione dei figli legittimi fu lentamente ridotta durante il Medio Evo (dunque equilibrando le forte disparità delle nascite di uomini e di donne in molte società); invece i figli illegittimi continuarono ad essere regolarmente uccisi fino al XIX secolo … Benché Thomas Coram avesse aperto il suo ospedale a Londra nel 1741, motivato dal non poter sopportare di veder morire i neonati giacenti nelle grondaie e marcendo nei mucchi di letame, ancora nel 1890 era comune vedere neonati morti per le strade di Londra…”.

L’infanticidio è stato praticato come un brutale metodo di pianificazione familiare…”

Inoltre il compendio delle Nazioni Unite afferma:

“Riguardo alle molte forme di violenza sui bambini, una maggiore sensibilità sta portando ad una maggiore visibilità e – si spera – ad una efficace prevenzione. Le ricerche disponibili dei diversi paesi suggeriscono che, almeno al di fuori delle zone di guerra attiva, i bambini sono più a rischio di violenza – compresa la violenza sessuale – nelle loro case, vittime di adulti vicini a loro. Purtroppo, in genere, i tentativi di documentare la portata globale della violenza sui bambini durante la loro infanzia, sono un riflesso del basso status dei bambini, della scarsa priorità politica accordata loro e forse più immediatamente un riflesso della colpa individuale e collettiva degli autori di violenza adulti sui bambini…”.
“…E’ un triste paradosso della civiltà umana che proprio i più piccoli e i più vulnerabili della popolazione dovessero aspettare fino all’ultimo per ottenere un coerente riconoscimento sociale e giuridico dei loro pari diritti all’integrità fisica e personale, alla protezione da tutte le forme di violenza interpersonale. Solo una manciata di paesi hanno finora adottato leggi per dare ai bambini la stessa protezione, contro le aggressioni fisiche, di cui godono gli adulti. Nella maggior parte degli stati le punizioni violente, tra cui percosse con degli oggetti, restano comuni ed ammesse dalla legge.
Tuttavia, vi è ora una maggiore consapevolezza che l’assunzione del diritto dei bambini alla protezione contro l’ordinaria violenza fisica nelle case e nelle istituzioni è di vitale importanza per il miglioramento del loro status, come lo è stato per le donne quando si è assunto il loro stesso diritto di protezione dall’ordinaria violenza domestica e della comunità.
A guidare questa tendenza è il Comitato sui Diritti del Fanciullo, l’organismo di controllo internazionale per la Convenzione, che ha sempre sfidato le leggi che autorizzano le punizioni fisiche dei bambini, raccomandando una chiara riforma giuridica e dei programmi educativi”.

Traduz. per CDVD a cura di Santiago G.

03 marzo 2011

http://www.canadiancrc.com/Infanticide_Canada-Position_Statement_Canadian_Childrens_Rights_Council_and_UN.aspx

 

Lecito, per madri assassine, ricorrere a depressione per ottenere pene più lievi”

TORONTO – Erika Mendieta, accusata di aver picchiato a morte la figlia nel 2003, è stata condannata a sei anni di prigione. La sentenza è stata emessa ieri da un giudice di un tribunale di Toronto. Siccome Erika Mendieta ha già scontato del tempo in prigione prima del processo, la sua sentenza è stata ridotta a 4 anni e 9 mesi. La 34enne di Toronto fu accusata di omicidio a febbraio. La figlia, Emmily Lucas, fu picchiata a morte nel 2003. Durante il processo, è emerso che la spina dorsale e la testa della bambina erano state gravemente danneggiate e riportavano ferite molto gravi, ma la madre non chiamò il 911.
La sentenza
La Corte d’Appello dell’Ontario ha deciso di confermare le leggi sull’infanticidio e ha deciso che le donne accusate di aver ucciso deliberatamente i figli piccoli possono utilizzare l’infanticidio causato da disturbi mentali, come la depressione post parto, come difesa e avere così una sentenza ridotta grazie all’attenuante. Con una votazione di tre pareri favorevoli contro zero contrari, la più alta Corte dell’Ontario ha respinto l’appello nel caso della donna di Guelph, conosciuta con le iniziali L.B., che dopo aver ammesso di aver soffocato i suoi due figli riuscì ad evitare una condanna per omicidio e quindi l’ergastolo.
Il suo caso fu trattato come infanticidio e la sentenza, quindi, ridotta. Anche se questo tipo di crimine viene punito con almeno 5 anni di prigione, L.B. ha ottenuto un credito per aver già scontato del tempo in carcere. Quindi avrà ancora un anno da scontare.
In Canada sono in tutto 86 le donne condannate per infanticidio dal 1977.

http://www.corriere.com/viewstory.php?storyid=106576

Non sentirete mai qualcuno che nega l'esistenza della Pas sostenere che i figli hanno diritto ad entrambi i genitori

La PAS – o “Sindrome di Alienzazione Parentale” – è una malattia o non è una malattia?

Il problema di voler decretare la “non scientificità della PAS” -una posizione epistemologica discutibile quanto da discutere in dibattiti specialistici- spesso occulta, infatti, la volontà di non prendere in alcuna considerazione i gravi problemi psicopatologici che i comportamenti di questi genitori creano nei figli.

Che la “PAS” sia o no una malattia, ovvero frutto di un comportamento insensato di uno o entrambi i genitori, non conta nulla: quello a cui si deve dare grave attenzione, sono le ripercussioni che l'”amputazione di un genitore” (utilizzo l’ottimo linguaggio dello psichiatra Gianmaria Benedetti, di Firenze) crea nel minore travolto da un sistema conflittivo, nel quale spesso non si capisce se sono i genitori, i legali, i consulenti di parte, o tutti insieme, a creare un contesto patogenizzante.

Si può anche sperare di riuscire ad elencare le prove per cui la PAS non è una malattia. Ma questo che significa? Fregarsene delle tragedie provocate nei minori?

In sintesi, sembra curioso che tutti vogliano dibattere se la PAS è o no una malattia, ma non si preoccupano di evitare le conseguenze delle conflittualità in corso di separazione. Ad esempio Mi sembra strano: molti si preoccupano dei bambini che finiscono sotto il Ritalin, ma -quando si parla di PAS- nessuno si preoccupa di quelli che finiscono sotto la carta bollata di avvocati e periti di parte.

Per questo ritengo che la querelle sulla PAS come malattia o no nasconda interessi di parte, vuoi anche ideologici. O, come a volte ho constatato, gravi problemi personali.

In realtà, la discussione sulla Pas come malattia o come malattia inventata e inesistente, sembra essere solo un ulteriore modo per guadagnare -come psicologi, come psichiatri, come legali o come periti- dalla conflittualità genitoriale.

Negare il “valore scientifico” alla PAS sembra essere infatti il cavallo di battaglia di nuovi sedicenti esperti che, in tal modo, si accattivano le simpatie ed il consenso, anche economico, di quei genitori i cui figli, guarda caso, non vogliono incontrare l’altro genitore.

Detto in altri termini, dibattere sulla esistenza o meno della PAS è un ulteriore modo per cercare consensi e guadagni da un sistema che vive di conflitti e non garantisce ai bambini un adeguato rapporto con entrambi i genitori.

Non sentirete mai, infatti, qualcuno che nega l’esistenza della Pas come patologia sostenere che, comunque, i figli hanno diritto ad entrambi i genitori.

Ed è da qui che si scopre l’intenzione di questi “esperti”

Gaetano Giordano

 

http://mobbing-genitoriale.blogspot.com/2011/02/la-pas-o-sindrome-di-alienzazione_22.html

Coppia lesbica picchia a morte bambino di 4 anni: "Non diceva Papà"

Johannesburg – Bambino di 4 anni, è stato brutalmente percosso, e ucciso, per essersi rifiutato di chiamare la compagna della madre, “papà”.

Lydia Nkomo, e sua figlia Aletta Lesiba, entrambe commesse (nere) nel negozio di proprietà della coppia (bianca), hanno riferito di aver visto la compagna della madre biologica scagliarsi violentemente contro il bambino dopo la richiesta, ed il conseguente rifiuto dello stesso, di chiamare la donna, papà.

Entrambe le commesse hanno testimoniato d’aver visto la compagna della madre picchiare violentemente il bambino sotto gli occhi della madre naturale, senza che questa sia minimamente intervenuta per proteggerlo.

Al bambino sono state riscontrate lesioni di tale entità, da esse paragonate a quelle causate dalla caduta da un secondo piano di un edificio.
http://www.mg.co.za/articlePage.aspx?articleid=267420&area=/breaking_news/breaking_news__national/#
Trad. da The Star
newspaper del 23/03/2006

[Foto liberamente reperita sul web e NON legata alla notizia]

False accuse di violenza domestica per non pagare l’affitto

La reporter Elizabeth Dwoskin ha pubblicato l’inchiesta “i 10 peggiori inquilini”.

Al quarto posto compaiono le donne che denunciano false violenze domestiche per non pagare l’affitto.

La sig.ra C.R., che aveva prodotto una lettera del centro anti-violenza “Orizzonti Sicuri”, è stata arrestata insieme a 4 altre donne per aver falsamente affermato di essere vittime di violenza domestica.

La sig.ra L.M. voleva un appartamento migliore di quanto il suo stipendio potesse permetterle; ed allora ha avuto un’idea brillante: proclamarsi vittima di violenza domestica, in modo da scalare le graduatorie per gli alloggi pubblici.  Quindi ha ottenuto un ordine restrittivo contro un fittizio “John Brown” accusato di averla picchiata.  È stata accusata di furto grave, in merito a 14mila dollari di sussidi governativi.

In base alla legge VAWA, violazioni serie e ripetute nel pagamento del canone di affitto non costituiscono giusta causa per la terminazione del contratto qualora l’affittuaria sia vittima di violenza domestica.

La commissaria del Dipartimento Investigativo dice che trova particolarmente ripugnanti le simulatrici di violenza domestica: “ci sono vittime vere”.

Articolo estratto e tradotto dalle seguenti fonti:

http://www.villagevoice.com/2011-03-09/news/nyc-ten-worst-tenants/3/

http://www.renewamerica.com/columns/roberts/110323

Se l'inibizione giuridica del ruolo genitoriale è la causa principale dei picchi di violenza in ambito familiare…

…. perché nei tribunali, avvocati, periti e giudici continuano a dare ossigeno alla mattanza?

 

I vari Istituti di ricerca, statali e privati, rivelano una messe di particolari sulla vita degli italiani: ci dicono dove e per quanto tempo andiamo in vacanza, quante ore trascorriamo alla guida, quanto spendiamo per alimentazione, abbigliamento, sport, cultura e spettacoli, come aumenta il bullismo adolescenziale, come oscilla il ricorso alla chirurgia plastica; e poi quanti decessi avvenivano prima e quanti dopo l’introduzione del casco obbligatorio, quanti prima e dopo le cinture di sicurezza obbligatorie, quanti prima e dopo la patente a punti, quanti incidenti si concentrano nel sabato sera ed in quali fasce orarie, quanti delitti a scopo di rapina, quanti per mano di immigrati, quanti decessi dovuti al doping, all’anoressia, agli stupefacenti, al fumo, all’alcool, alla dieta fai-da-te …

I più diversi aspetti della vita quotidiana vengono osservati, sezionati, analizzati e catalogati per fornire un quadro statistico il più dettagliato possibile; il tutto suddiviso per anno, per semestre, per mese, e poi ancora per regioni, province, città e piccoli centri, per sesso e per fascia d’età, di reddito, di scolarizzazione…

Nelle statistiche tanto minuziose e capillari continua però a mancare la voce relativa ai fatti di sangue legati alle separazioni.

Perché? Dimenticanza fortuita o volontà precisa?

La versione dei media in occasione di ogni fatto di sangue fra separati è sempre quella del gesto isolato di un folle. Non viene mai fatta un’analisi del fenomeno nel suo insieme, anche se è ovvio che quando i cosiddetti “gesti isolati” si ripetono a migliaia, qualcosa nel Sistema non funziona come dovrebbe.

Nessun organo di informazione ricondurrebbe al gesto isolato di un pazzo la gravità di centinaia di morti come conseguenza dell’uso di anabolizzanti nel culturismo e nello sport agonistico in generale; non vengono etichettati come gesti della follia, anzi proprio presso certi studi medici, certe palestre e certe farmacie si cercano e si trovano le pulsioni del fenomeno dilagante.

Non viene frettolosamente archiviato come pazzo neanche il debitore disperato che uccide l’usuraio causa della sua rovina; la collettività prende atto della gravità del problema e nasce un numero verde anti-usura, vengono stanziati fondi per salvare le attività ostaggio degli “strozzini”, il disagio viene contestualizzato e si studiano le contromisure a livello governativo.

Nessuno ha mai sottovalutato le stragi del sabato sera al ritorno dalle discoteche, non sono malati di mente i ragazzi che muoiono in auto, infatti proprio le discoteche sono oggetto di provvedimenti legislativi per tentare di arginare il fenomeno negativo (orari di chiusura definiti per legge, limite al livello dei decibel, stop anticipato alla vendita di alcolici, controlli per la diffusione di stupefacenti, etc.).

Ogni volta che un fenomeno di massa produce degli effetti critici, le cause si individuano e le soluzioni si cercano, sempre, all’interno del contesto nel quale tale fenomeno prende vita e si sviluppa.

Ciò che accade per qualsiasi altro fenomeno sociale non accade invece per la fallimentare gestione del conflitto di coppia, che ha come unica soluzione la ricorsività del conflitto giuridico, per sua natura tendente a salire di livello.

Quando la gente muore uscendo dalle discoteche si cercano i motivi nelle discoteche; quando la gente muore uscendo dalle palestre si cercano i motivi nelle palestre, quando invece la gente muore uscendo dai tribunali i motivi si cercano nei disturbi mentali della gente.

Appare ormai necessario iniziare ad osservare l’influenza dell’orientamento giurisprudenziale prevalente.

Nessuna fonte ufficiale, né tantomeno gli organi di informazione, hanno mai effettuato una analisi criminogenetica, documentando i collegamenti fra la ricorsività del conflitto, i provvedimenti limitativi nella frequentazione con i figli e la disperazione che porta a togliersi la vita.

L’area della Rivista ove è presente l’articolo è quella dedicata al Disagio familiare, Separazioni e Affido dei Minori, e che è coordinata dal dr. Gaetano GIORDANO

http://www.comunicazionedigenere.it/?p=1670

Bambina abusata grazie a leggi femministe

L’incubo della piccola Emily è iniziato nel 2003 quando aveva solo due anni: è stata prima allontanata da suo papà e portata dalla madre in un centro anti-violenza; quindi coinvolta in false accuse, poi affidata ad un pedofilo e, non curata, ha perso la vista all’occhio destro.  Grazie alle leggi femministe, la donna ha l’assistenza legale gratuita a spese dello stato.

Quanto segue è estratto e tradotto da un articolo pubblicato da AssociatedContent.

*   *   *

Emily non avrebbe perso il padre per 5 anni e la vista dall’occhio destro se non fosse stato per il VAWA (Violence Against Women Act) [legge femminista].  Suo papà Karl Hindle, cittadino inglese, si innamorò di S.F., americana trasferitasi in Inghilterra tacendo che in america aveva abbandonato il marito e le figlie.   Emily nacuqe il 1o Marzo 2002 nel Regno Unito.  A 5 mesi le viene diagnosticata l’ambliopia all’occhio destro; un problema che, se non curato, porta a perdere la vista.

Nel febbraio 2003 la madre decide di abbandonare Hindle e tornare in america. Sa che il padre non sarebbe d’accordo e fa quello che fanno molte donne in queste situazioni.  Lo accusa di violenza domestica ed abuso sessuale.  Grazie al VAWA ha solo bisogno di dire queste parole.

La donna viene messa in centro anti-violenza, ottenendo assistenza legale gratuita a spese del governo americano.  Senza alcuna prova, la funzionaria B.G. autorizza la illegale sottrazione internazionale di minore.

In america, la madre interrompe le cure della figlia e prova a darla via in uno “scambio di bambini”, mettendola nella famiglia di L.M., tre volte condannato per pedofilia.  Il padre riesce a far fermare questa operazione.  La madre lo denuncia per stalking, ma (essendo su di un altro continente) il padre può dimostrare la sua innocenza.

La donna fa più di 100 false accuse.  Tutte le numerose indagini, sia nel Regno Unito che in America, stabiliscono che il padre è innocente in tutti i casi.  La donna viene riconosciuta colpevole di aver fatto false accuse ed istruito la piccola Emily.

Che dopo 3 anni, nel 2006, è felice quando rivede il padre ed i fratelli.

Ma la madre sparisce di nuovo, facendo un’altra falsa accusa. […] Fra tutte queste azioni illegali ed irresponsabili, Emily perde la vista.  La madre continua a ricevere assistenza legale gratuita in base al VAWA.

*   *   *

Purtroppo la vicenda non è ancora conclusa, e gli aggiornamenti possono essere seguiti qui:

http://emilyrosehindle.blogspot.com

Intervista al giudice Roberto Ianniello: il rapporto fra la Giustizia e i Minori

Riprendiamo una intervista, apparsa sulla rivista Psychomedia, al giudice dott. Roberto Ianniello, che è stato recentemente vittima di incredibili e vergognosi attacchi .

Padre di due figli e marito di una pediatra e psicoterapeuta il dott. Roberto Ianniello è giudice anziano del Tribunale dei Minorenni di Roma. E’ stato protagonista di una delle più significative esperienze di collaborazione fra Magistratura e Servizi Sociosanitari, la UORMEV (2) Attualmente fa parte del gruppo di ricerca sulla Mediazione Interistituzionale affidato dal Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma all’Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza e presieduto dal prof. Novelletto. Inoltre il dott. Ianniello coordina uno dei gruppi distrettuali organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura finalizzati all’autoformazione dei giudici attraverso la discussione dei criteri e delle metodologie utilizzate nello svolgimento del proprio lavoro istituzionale.

In quella che da molti viene definita una società “senza padri” e di figli “sregolati” la figura del giudice del Tribunale dei Minorenni appare sempre più intensamente investita di aspettative e di timori, sia da parte dei ragazzi e delle loro famiglie che dai Servizi sociosanitari deputati alla prevenzione e alla riabilitazione del disagio adolescenziale. Il magistrato appare collocato su un crinale fra due serie di rappresentazioni: su un versante vi è quella di una “giustizia giusta”, a cui viene delegata la responsabilità di ripristinare l’ordine che è stato sovvertito nella società e, in particolare, di garantire la tutela del minore, il più fragile e bisognoso fra i diversi attori sociali.
Sull’altro versante vi è la rappresentazione di una “giustizia ingiusta”, lenta oppure troppo frettolosa e fallace. In quest’ultimo caso il giudice viene rappresentato come un padre assente e autoritario, che dispone provvedimenti ma non ne verifica l’attuazione, sottraendosi alla relazione con gli utenti e con i Servizi. Insomma, il giudice dei minori è un personaggio allo stesso tempo vicino e lontano e questa intervista è finalizzata a conoscerne meglio ruoli, funzioni, orientamenti.

D. Partirò dal principio: quando e perché si è costituito in Italia il Tribunale dei Minori?

 

R. Il Tribunale dei Minorenni è nato nel 1934 principalmente come organo di controllo della gioventù, in un periodo in cui il Governo mirava al controllo totale della vita sociale dei cittadini. Esso avrebbe costituito un po’ un contrappeso al potere dell’Azione cattolica sui giovani e le famiglie, che il fascismo non riusciva ad intaccare. Negli anni ’30, ’40, Ô50 il giudice dei minori aveva una competenza molto estesa, particolarmente nei settori penale e amministrativo. Poteva intervenire sui minori “irregolari nella condotta”, come diceva la legge, per mandarli in case dove erano contenuti e “curati”. Si è lavorato molto sul piano giurisprudenziale per adeguare le norme alla realtà sociale e culturale in evoluzione. Quando verso la fine degli anni’60, sulla scia delle ricerche e delle scoperte americane, il concetto di abuso è giunto anche in Italia si è attivata la protezione dei minori dall’abuso, utilizzando le norme civili del codice degli anni ’40 attraverso un imponente lavoro interpretativo. Il giudice dei Minorenni è diventato sempre più il giudice dell’abuso e si è attrezzato per fronteggiare questo fenomeno sociale che si scopriva via via essere molto esteso.

D. In cosa consiste il lavoro di un giudice del Tribunale dei Minori in una metropoli come Roma?

 

R. Raffrontare il giudice dei minori alla metropoli mi sembra riduttivo. Il Tribunale di Roma opera su tutto il Lazio e ciò comporta occuparsi anche dei problemi di Comuni piccoli o piccolissimi: basti pensare che la sola provincia di Frosinone ha novantasei Comuni. Esistono tuttora molte problematiche legate al costume locale. Ad esempio, abbiamo potuto osservare fenomeni di incesto in province nelle quali permangono residui di una sorta di iniziazione rituale del pater familias rispetto alle figlie adolescenti, a volte anche preadolescenti. Come pure la resistenza culturale a istituti innovativi come l’affidamento familiare, per persone abituate a ritenere i figli altrettante cose proprie.

D. Quali sono le problematiche di cui vi occupate?


R.
Da un’opinione pubblica abituata alle schematizzazioni il Tribunale dei Minorenni viene considerato il Tribunale dell’adozione e del perdono giudiziale. In realtà il 90% della competenza civile del Tribunale dei Minorenni è nel campo dell’abuso all’infanzia.
E’ un lavoro impegnativo perché è molto difficile individuare questa patologia dei rapporti familiari che spesso, in una visione ristretta, viene ridotta ai maltrattamenti fisici o alle violenze sessuali ma che ha un contenuto ben più ampio. L’abuso, in Italia, si concretizza in larga maggioranza in ipotesi di abbandono. Nella nostra società il bambino subisce molteplici e ripetuti abbandoni che spesso sono ascrivibili ad una ridotta capacità dei genitori ad occuparsene, non solo a causa dei molteplici impegni contingenti ma anche per una sorta di carenza sotto il profilo della trasmissione culturale. Una volta le mamme insegnavano alle mamme. La mia generazione, che è la generazione del Ô68 e del ’77, ha rifiutato ogni forma di tradizione, ogni forma di insegnamento dei padri. Tuttavia la mancanza di radici ed il rifiuto dell’eredità culturale ad un certo punto emergono in termini di disorientamento. Alcuni genitori non hanno avuto una bussola per orientarsi ed hanno dovuto inventarsi le risposte ai bisogni dei figli, per rispondere in maniera non autoritaria, come si faceva prima, pur senza conoscere fino in fondo i comportamenti corretti. A volte si sono commessi degli abusi anche non sapendolo, credendo di fare bene, e gli abusi influiscono sullo sviluppo dell’affettività, dell’aggressività e delle relazioni con l’esterno del bambino, senza parlare degli aspetti cognitivi. Queste carenze nell’evoluzione ad un certo punto emergono e spesso ciò si verifica nell’adolescenza.

D. In certi casi l’adolescenza sarebbe una sorta di cartina tornasole dell’abuso, dunque?

R. Purtroppo si cerca di curare con i farmaci o con equivalenti dei farmaci, come se tutta l’adolescenza fosse in sé una patologia, e si perde in questo modo l’occasione unica di intervenire per aiutare il ragazzo a rimettere le cose a posto in un momento caratterizzato da una grande mobilità psicologica. Non c’è da meravigliarsi dello straordinario successo che ha avuto, prima negli Stati Uniti e ora anche da noi, quella sindrome del bambino iperattivo con la quale si è preso ad etichettare come malattia qualsiasi disturbo che il bambino presenta nella relazione.

D. Chi vi segnala le situazioni di abuso?

 

R. La segnalazione può avere varie origini: un genitore, i parenti, i vicini di casa, la scuola. Non è facile individuare i fattori di rischio evolutivo e quelli di protezione. Qualche anno fa a Monza l’équipe del prof. Bertolini, effettuò una ricerca sui fattori di rischio. I ricercatori si rendevano conto che le famiglie abusanti normalmente sono occulte e non hanno relazioni con le istituzioni: non mandano i figli al nido o all’asilo. Gli unici momenti in cui si potevano individuare le situazioni di rischio familiare erano quello della nascita (il passaggio dalla ginecologia e dall’ostetricia) e il momento della visita pediatrica. Avevano allora predisposto dei questionari per individuare possibili situazioni che poi venivano seguite con un follow up atto a vedere come si poteva contenere il rischio. Spesso la segnalazione individua un’emergenza e richiede risposte immediate ad un disagio già in corso, mentre la modifica preventiva di una situazione di rischio permetterebbe di lavorare soprattutto con le famiglie, in una specie di alleanza nell’interesse del minore.

D. I non addetti ai lavori sanno che le decisioni del Tribunale vengono prese nella Camera di consiglio, ma non ne conoscono l’effettivo funzionamento.


R.
La Camera di consiglio è composta da quattro persone: due sono giudici di carriera e
due sono giudici onorari: psicologi, assistenti sociali, neuropsichiatri, pedagogisti, insegnanti o avvocati, nominati a quella funzione proprio perché hanno una specializzazione rispetto alla trattazione dei problemi infantili. Uno dei due giudici è quello che conosce meglio il fascicolo, perché ha effettuato l’istruttoria.
L’altro è il presidente del collegio. Chi ha compiuto l’istruttoria riferisce quello che è successo, dalla segnalazione del caso a tutto quello che si è accertato in seguito (dichiarazioni delle persone, indagini del servizio sociale o della polizia) fornisce il suo parere in proposito e propone una soluzione. Questa soluzione viene discussa e a volte può non essere accolta. Può capitare a questo giudice di dover scrivere un provvedimento su cui egli non sia del tutto d’accordo ma che è stato votato dalla maggioranza del collegio. Questo è difficile da far comprendere ai Servizi territoriali ed alle persone che hanno collaborato con il Giudice nella raccolta dei dati, fornendo la propria opinione e le proprie proposte. Il Tribunale dei Minorenni sta cercando di riacquistare quanto più possibile un ruolo di imparzialità che nella foga della protezione dell’infanzia si era un po’ persa. I Servizi a volte pensano di poter concordare con il giudice una soluzione, ma questo non è possibile. Mi ricordo che nelle riunioni che c’erano all’epoca della UORMEV, in cui si discuteva dei casi, molte volte c’era da parte degli operatori l’accusa di non aver aderito alla proposta del servizio.

D. Il dottor Fadiga, l’ex presidente del tribunale dei Minorenni di Roma, segnalò che in numero sempre maggiore gli adolescenti si sottraggono al controllo della famiglia e della scuola e si orientano verso condotte antisociali senza i provvedimenti civili in materia di potestà genitoriale né i provvedimenti di ricovero in strutture protette riescano a fornire risposte di aiuto e di contenimento. E’ d’accordo?

 

R. Sono d’accordo. In istituto i problemi non si risolvono ma si aggravano, salvo rare eccezioni. Se l’adolescente rimane in famiglia, per quanto in una situazione conflittuale, ha qualche rapporto affettivo in più, l’ambiente è meno impersonale. Gli istituti dove si può effettuare una terapia si contano sulle dita delle mani. Di solito gli istituti sono privati e quando l’adolescente manifesta dei problemi (dà fastidio, ruba, picchia i compagni, è aggressivo) lo buttano fuori. Insomma ÔAlla prima che mi fai, fai fagotto e te ne vai!’, come diceva un personaggio del Corriere dei Piccoli. C’è bisogno di case famiglia e istituti qualificati e accreditati che non abbandonino l’adolescente a se stesso o lo facciano avviare ad una precoce psichiatrizzazione. Il problema degli adolescenti è un problema familiare ma anche un problema sociale. Spesso i Comuni possono offrire agli adolescenti solo le sale giochi, i video poker e forse una piazza come luogo di aggregazione. Se non hai la ragazza, il PC, non giochi nella squadra di calcio locale o non frequenti la parrocchia cosa fai, in un piccolo paese? Bisognerebbe effettuare investimenti mirati per dare agli adolescenti più alternative: ad esempio realizzare centri diurni di aggregazione, con attività più o meno specializzate.

D. Mi sembra che abbia toccato il problema particolarmente spinoso dei luoghi e delle modalità dove “trattare” adolescenti problematici.

 

R. Il giudice può individuare una diagnosi adeguata, e il trattamento adeguato, ma poi la terapia non si può realizzare perché l’adolescente di Pignataro Interamnia o di Broccostella non trova nelle istituzioni del suo paese i mezzi e la volontà per essere seguito. Trovare un luogo per curarlo costa troppo. Da tempo ritengo che i Comuni che non riescono da soli a realizzare i compiti istituzionali che la legge gli affida in materia di tutela delle persone dovrebbero trovare dei sistemi per unire le loro forze, in maniera da sostenere insieme il peso e le difficoltà di questa azione. Gli unici consorzi che i Comuni sono riusciti ad organizzare sono quelli per lo smaltimento dei rifiuti. Credo che, assieme allo smaltimento dei rifiuti, sia necessario pensare a curare dei cittadini che, se non verranno aiutati e seguiti, potranno creare dei problemi futuri, non solo a se stessi e alle loro famiglie ma a tutta la società.

D. Quali sono i problemi di un’istituzione complessa come quella di un tribunale?

 

R. Sono i soliti, i condizionamenti dall’alto e dal basso. Dall’alto quelli legati a certe prassi burocratiche di origine ministeriale o anche dalla Corte d’appello: non so, compilare dei registri o non ricevere la copertura dei posti scoperti in organico. Dal basso il fatto di non disporre di personale qualificato. Il Tribunale dei Minorenni poi differisce dagli altri organismi giudiziari. Normalmente il giudice ha come interlocutori la polizia e i consulenti tecnici. I consulenti tecnici sono nominati dal giudice e in qualche modo dipendono dal giudice; il capo della polizia giudiziaria è il procuratore della repubblica, un magistrato. Il Giudice dei Minorenni, però, non agisce con la polizia né con i consulenti tecnici ma con specialisti di altre professioni che hanno un diverso ordinamento e diverse dipendenze gerarchiche, vengono pagati da altre istituzioni e sono totalmente liberi rispetto al giudice. Il giudice non può emettere ordini nei loro confronti. Essi devono svolgere il loro lavoro secondo i criteri della loro professione, che sono molto spesso diversi da quelli giuridici.

D. Si pone quindi un problema di integrazione fra queste diverse figure?


R.
Sì, a livelli diversi. Sia in termini di comprensione del linguaggio che di conflitti fra i dirigenti delle diverse istituzioni che possono fortemente condizionare il risultato di questa attività, che è un’attività complessa. Ormai l’hanno capito un po’ tutti che su un bambino, e soprattutto su un adolescente, si può sperare di ottenere un risultato se si lavora in équipe, con più persone che portino le proprie competenze scientifiche ma anche le capacità personali, sia tecniche che empatiche. Io mi batto da anni per la creazione di Servizi multidisciplinari, formati da più operatori che lavorano insieme. L’idea di risolvere i problemi con il singolo assistente sociale, magari relegato in un piccolo Comune sulla montagna, è pura utopia.

D. Eppure talvolta fra magistrati ed operatori dei servizi si registra una polemica: i primi contestano ai servizi sociosanitari del territorio di non fornire adeguati elementi per il giudizio e la decisione conseguente; i secondi denunciano la resistenza dei magistrati a voler realmente collaborare con altri professionisti e una tendenza a voler risolvere da soli i problemi. Qualcuno ha parlato addirittura di giudici in camice bianco e psicologi in toga nera. Qual’è la sua opinione in proposito?

 

R. E’ una polemica vecchia, credo abbastanza superata. Adesso l’accusa principale è quella di non voler concordare la decisione, mentre il giudice decide come terzo. Per cui ci sono richieste strane, ad esempio che la relazione del Servizio rimanga segreta. Ma come si fa a rendere segreto l’atto di un processo in un sistema in cui c’è la massima trasparenza a garanzia di tutti? Capita ancora, però, che certe indagini e certi accertamenti siano carenti e non diano gli elementi sufficienti per decidere, o che vengano effettuati dopo un tempo talmente lungo da rendere vana la protezione. Il giudice non attende passivamente questo tempo: ogni tre mesi al massimo sollecita una risposta; ma io ho avuto delle ASL che mi hanno risposto, nonostante solleciti stringenti, dopo oltre un anno. E allora l’alternativa è denunciarli per omissione di atti d’ufficio. Ma serve realmente fare questo? Una denuncia non facilita una collaborazione. Quindi il rapporto è sempre molto delicato. In ogni lavoro, sia fra i giudici che fra gli operatori e gli specialisti dei servizi, ci sono persone brave e meno brave, persone che hanno voglia di lavorare e persone che non l’hanno. Il problema vero è quando un Servizio s’identifica con la figura di una sola persona: se questa persona è impreparata è un guaio per tutti.

D. Diversi esperti propongono di migliorare il faticoso processo di integrazione fra magistrati e operatori dei servizi introducendo una specifica formazione psicologica per i primi e una formazione giuridica per i secondi. Non le sembra che in questo modo si dia troppo spazio agli aspetti intellettuali e troppo poco allo scambio e alla comunicazione diretta di atteggiamenti, contenuti e modelli culturali caratteristici delle specifiche professioni?

 

R. Penso di sì. L’integrazione è molto difficile anche perché i ruoli sono diversi: i Servizi devono svolgere le loro competenze in materia di accertamento, di prognosi, di individuazione delle problematiche e di proposte di soluzione, mentre il giudice deve giudicare. Il compito del giudice è di effettuare la iuris dictio, cioè dire quale norma di legge si applica al caso concreto e qual’è il rimedio alla violazione che si è verificata. E’ indubbio che una formazione specifica possa essere utile nel senso di creare le basi per una formazione comune. Però mi spaventa pensare ad una formazione di tipo tayloristico, nella quale ci sia il Docente e i discepoli che devono abbeverarsi al suo sapere. Una formazione così ormai abbiamo scoperto non funziona, non serve a scambiare ed elaborare le esperienze, i diversi modi di pensare e di sentire, né ad evitare appiattimenti cognitivi.

D. Negli ultimi anni hanno fatto scalpore i delitti commessi da alcuni adolescenti italiani, da Pietro Maso alle ragazze di Chiavenna e di Foggia fino a Omar ed Erika. Dal suo osservatorio a lei sembra che la violenza giovanile sia in aumento in Italia?

 

R. Direi di no. I dati statistici ci dicono che il livello di delinquenza giovanile in Italia è il più basso che esista in Europa e che questa situazione è rimasta stabile negli ultimi cinque anni. Certo è indubbio che oggi si assista a delitti particolarmente efferati e che ciò susciti particolare clamore, anche in relazione alla straordinaria cassa di risonanza dei mass media, motivati da esigenze spesso principalmente commerciali.

D. Cosa ne pensa delle proposte di legge di diminuire l’imputabilità piena da diciotto a quattordici anni e quella ridotta da quattordici a dodici?

 

R. Sono le proposte dei cosiddetti benpensanti, spaventati dalla risonanza di cui parlavo prima. Fino a quattordici anni si ha una piena irresponsabilità dei minori e al di sopra di quell’età, dai quattordici ai diciotto anni, vi è una piena imputabilità ma con una diminuzione della pena fino ad un terzo. Con il bilanciamento delle aggravanti, delle attenuanti e della diminuente della minore età si può sempre valutare la pena in maniera adeguata alla situazione, disponendo anche pene severe, se ne ricorrono i presupposti , dal momento che le previsioni normative lo consentono.

D. E’ vero che aumentano i reati commessi dagli infra-quattordicenni ?

 

R. Statisticamente non è dimostrato. In città come Roma il dato percentuale più elevato riguarda i reati commessi da persone non italiane, reati sempre degli stessi tipi: furti commessi dagli zingari e vendita di stupefacenti da parte dei nordafricani. Si cominciano a manifestare fenomeni di bullismo, che sono evidentemente dipendenti da un ambiente familiare e sociale inadeguato.

D. Un dato significativo è l’aumento dei reati collettivi. L’adolescente è spesso affiancato da un “complice”: un amico, il ragazzo/a, o, più frequentemente, agisce all’interno di un gruppo o di una “banda” legati da dinamiche specifiche. Mi pare che questo segnali lo stretto vincolo fra la mente del singolo e quella del gruppo e renda particolarmente complicato l’accertamento della responsabilità civile o penale che è sempre individuale. Come si muove il giudice in questi casi?

 

R. I reati di gruppo ci sono sempre stati. L’adolescente si unisce in bande quando ha bisogno di trovare conferme che non ha né nella famiglia né nell’ambiente sociale più esteso. Se i giovani fossero in società primitive probabilmente si sottoporrebbero a riti di iniziazione; in questa società a volte il comportamento antisociale può costituire l’equivalente di un rito iniziatico. Se l’adolescente avesse delle alternative nella famiglia o nel gruppo sociale non avrebbe bisogno di cercare conferme, considerazione, collocazione e anche affetto nella banda. Pensiamo alla paura che ha un adolescente quando commette un reato: paura di essere scoperto e di non essere adeguato, di perdere la faccia di fronte alla banda e al capo della banda, che può essere anche un adulto. Non ci dimentichiamo mai che imputabilità significa capacità di intendere e di volere, che vuol dire capacità di intendere il significato delle proprie azioni ma anche di volerle autonomamente. E’ opinabile che chi partecipa ad una banda abbia delle minori capacità di volere autonomamente l’atto compiuto perché in quel momento esso è in qualche modo emanazione di qualcun altro, di qualche cos’altro, forse emanazione di questo spirito impersonale ed anonimo della banda che proprio per questo anonimato permette una confusione fra ruoli, azioni e desideri. Mi viene sempre in mente quella definizione del popolo tedesco che lo rappresenta tanto sublime in ogni singolo individuo e così spregevole se preso tutto assieme. L’adolescente a volte è anche un po’ questo e bisogna tenerne conto.

D. Si dice che l’adolescenza possiede una sua specifica carica provocatrice e che rappresenta la fase della vita che più di ogni altra produce intensi processi identificatori fra il soggetto e i suoi oggetti. Sarebbe proprio questa caratteristica che attiva tanto l’interlocutore. E’ così anche per il giudice dei minori?

 

R. Sì. Alcuni giudici possono non trovarsi bene a svolgere questo lavoro perché può smuovere conflitti irrisolti del soggetto che indaga. Soprattutto nei rapporti con gli adolescenti, ma anche con i bambini e con le loro famiglie. Allo stesso modo ci sono aspettative riversate sul giudice per le quali egli può essere vissuto in senso miracolistico, come quel soggetto imparziale che risolve il conflitto che coniugi o conviventi non riescono a risolvere. Però il più delle volte prevale una difesa della propria riservatezza ed esiste una grande paura che qualcuno metta il naso nelle vicende familiari. Il giudice, dal punto di vista soggettivo, può essere vissuto come una figura da cui guardarsi perché è un po’ una schematizzazione del Super-Io. In effetti, fra le istituzioni, quella che giudica ha connotati fortemente superegoici. Così la relazione con il giudice può dipendere dal rapporto che ogni persona e ogni famiglia ha costruito con il Super- Io. Il mondo familiare è un mondo chiuso per definizione, in cui nessuno deve mettere bocca. I luoghi comuni su questa privatezza sono nei proverbi e nelle massime incise sulle mattonelle vendute nelle Fiere di paese. “I panni sporchi si lavano in famiglia” si dice, oppure “Dentro la mia casa io sono il re”, ed anche il detto poco ospitale sulla somiglianza fra ospiti e pesci finisce per inserirsi in questa difesa strenua di un ambito nel quale si può entrare se invitati (l’ospite), ma solo per breve periodo, e dove si è soggetti all’autorità assoluta del capofamiglia (il re). In tale ordine di idee è difficile accettare che ci sia un organismo statale della forza e del peso di un Tribunale che interviene ed interferisce con le decisioni e le vicende familiari. Anche nei giudici è talvolta presente il burn out che così gravemente colpisce i lavoratori delle helping professions tutte le volte che non riescono a superare l’inevitabile accumulo di frustrazioni conseguente alle difficoltà ed agli ostacoli nel raggiungimento degli obiettivi del proprio lavoro..
Il giudice che vuole svolgere bene il proprio lavoro ha bisogno di guardarsi dentro, acquisire quegli elementi che gli permettano di dialogare con le persone con cui viene a contatto e risolvere quei conflitti che possono inficiare il proprio giudizio, impedendo di vedere la realtà così come è.

Titolo originale:  Il rapporto fra la Giustizia e i Minori. Roberto Ianniello. Intervista di Emilio Masina, tratta da  http://www.psychomedia.it/aep/2002/numero-2/masina.htm

Due casi di ingerenza in procedimenti giuridici?

L’articolo “Un caso particolare di ingerenza in procedimenti giuridici?” apparso su EdizioniOggi riferisce che il senatore Stefano Pedica dell’IDV avrebbe “telefonato al Presidente del Tribunale dei Minori di Roma (dottoressa Melita Cavallo) per ottenere l’annullamento di certi provvedimenti giudiziari” volti a tutelare un bambino allontanandolo dalla madre, alla quale era stata revocata la patria potestà.   La Forze dell’Ordine hanno tentato ma senza successo; viene riferito di una successiva “campagna diffamatoria contro il Tribunale dei Minori di Roma e contro le forze dell’ordine” e della gravità delle condizioni del bambino, come emerse da una relazione del curatore nominato dal Tribunale.

La Repubblica del 7/8/2010 riferisce di un secondo caso di ingerenza dell’onorevole Pedica, che avrebbe dichiarato: «Attraverso tutte le prefetture, vigilerò ogni giorno […] bisogna negare la possibilità che il bambino venga portato in vacanza dal padre per dieci giorni».   L’ambasciata americana si astenne da reazioni ufficiali in merito al caso del piccolo Liam McCarty, al quale anche i Tribunali italiani avevano finalmente riconosciuto il diritto a ritrovare suo padre, dopo che nel 2007 il piccolo era stato portato in Italia, coinvolto in una grave falsa accusa e portato ad odiare suo padre.  I Giudici avevano capito la situazione reale e protetto Liam dalla madre, descritta su il Giornale del 3/11/2009 come “sofferente della sindrome di Münchhausen per procura: un disturbo mentale che spinge le madri ad arrecare un danno fisico al figlio per attirare l’attenzione su di sé e che costituisce un serio abuso sull’infanzia”.   Protetto dalla madre, alla quale è stata sospesa la potestà genitoriale, e curato dalla alienazione genitoriale, il piccolo Liam ha potuto felicemente passare le vacanze con suo padre, come documentato in un servizio della TV americana MNSBC:


In entrambi i casi, le madri dalle quali i Giudici hanno disposto di allontanare i figli erano assistite dall’avvocato Girolamo Andrea Coffari di Gilferraro, che presiede una onlus denominata “Movimento per l’Infanzia”.  L’avvocato sostiene di essere stato abusato in gioventù dal proprio padre ma non creduto dai Giudici ed allontanato dalla propria madre.

Per i bambini, il venire coinvolti in false accuse è un maltrattamento che può causare psico-patologie sovrapponibili a quelle causate da abusi reali.

La separazione, il diritto di visita e lo stupro delle relazioni – di Fabio Nestola

Qualcuno salterà su come indiavolato se dico che ci hanno indotto a credere che lo stupro possa avere vittime esclusivamente femminili…Invece anche un uomo può essere violentato, da un uomo, da una donna o da un intero Sistema.

Il punto è un altro: se è valido il terribile dramma di un corpo violato, è impossibile non accettare che possa essere valido il dramma di un equilibrio psico-emotivo violato ancora più del corpo.

La differenza è questa: lo stupro fisico è limitato nel tempo, il picco di violenza è relativamente breve. Però le conseguenze nell’equilibrio di una donna violata impiegano anni a sparire, possono anche non sparire mai.

Lo stupro delle relazioni dura tutta la vita; oltre alle conseguenze psico-emotive è lo stesso picco di violenza a non finire mai.

Per un padre separato comincia ancora prima di andare in tribunale, quando il mio avvocato mi dice che ho poche speranze di vedere i figli con assiduità: l’importante è che io paghi, poi a crescerli ci penserà qualcun altro.

Il picco si rinnova ogni giorno, in uno stillicidio di fatti apparentemente scollegati tra loro:

quando mi concedono il “diritto di visita” due domeniche al mese,

quando li riporto con un quarto d’ora di ritardo e trovo i Carabinieri,

quando saltano gli incontri per un certificato medico fasullo,

quando arriva l’SMS “domani non venire, abbiamo da fare”,

quando suono a quel citofono e non risponde nessuno,

quando non me li prescription levitra passa al telefono,

quando spegne apposta il cellulare,

quando vado a scuola e le maestre mi trattano con diffidenza,

quando mi ritrovo accusato di schifezze mai fatte,

quando la madre scappa senza motivo in un centro antiviolenza,

quando un’assistente sociale di 25 anni decide se sono capace a fare il padre,

quando mi nascondono la data della recita scolastica,

quando i miei figli chiamano “papà” l’ultimo arrivato,

quando non ho una casa dove portare i bambini,

quando devo vedere i miei figli in incontri protetti,

quando gli incontri protetti saltano perché non ci sono locali adatti o il personale è impegnato altrove,

quando sbatto contro l’incompetenza di chi dice “dovreste trovare un accordo“,

quando lei tenta di mandarmi in galera con false accuse e se provo a difendermi siamo “conflittuali”, al plurale,

quando l’unica cosa che mi rimane sono le foto perchè la madre è scappata all’estero,

quando chiedo aiuto alle istituzioni e tutti allargano le braccia, quando sporgo denuncia e per mesi non si muove nessuno,

quando è lei a farla e dopo mezz’ora mi telefonano i Carabinieri,

quando penso a cosa dirà ai bambini per giustificare che il papà è giusto vederlo poco,

quando piango la notte come un ragazzino pensando ai miei figli che non posso amare come vorrei …

Non serve andare avanti per ore, sappiamo tutti di cosa sto parlando. L’intero Sistema, se chiedo di occuparmi dei figli, è costruito per trattarmi da intruso, invadente, incapace, pericoloso. Sono violenze che si ripetono per anni, ogni giorno, ogni minuto. Vieni aggredito da sensazione di impotenza, disperazione, umiliazione, dall’arroganza e l’incompetenza delle persone alle quali chiedi aiuto, la forza di andare avanti sembra ogni giorno sul punto di sparire…

Dinamiche sperimentate sulla propria pelle da troppi padri, per troppi anni.

Diamogli un nome. Si chiama stupro delle relazioni.

[Fonte: Adiantum]