Chi ha ucciso il padre del piccolo Paul? — di Vittorio Vezzetti

Un bambino chiede al mondo: perchè sono cresciuto lontano dal mio papà?  In questo capitolo del libro del dott. Vezzetti (BookSprint edizioni) il mondo gli  risponde.  “Nel nome dei figli” è il primo romanzo-thriller italiano interamente ambientato nei meandri del Diritto di Famiglia.  L’autore, esperto riconosciuto nel campo della tutela legale dell’infanzia, ha voluto abbracciare in modo originale il pubblico più vasto possibile elaborando un testo con diversi piani di lettura.

Un primo piano, elementare, basato sul racconto ricco di colpi di scena derivati dall’immaginario patto di sangue tra un anziano legale e un giovane cliente.

Un secondo piano, più complesso, rivolto ai genitori separati e ai professionisti del settore che potranno apprendervi molti dettagli innovativi.

Un terzo piano legato alla riflessione su temi eterni quali il contrasto giustizia assoluta-giustizia degli uomini, quello fra libero arbitrio e destino prederminato, il rapporto uomo-donna nella famiglia e nella società.

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-È colpa tua, papà: sei tu il responsabile della tua assenza. È colpa tua se io son diventato grande senza di te-.

-No- dice il padre- A cavallo del mio mustang io son venuto tutte le volte che il giudice aveva previsto. Io mi sono sempre presentato alla tua porta. Col sole e con la pioggia. Saltando i crotali ed evitando i coyote. Sono andato in caserma e ho fatto le denunce; ho guadato il grande fiume; mi sono azzardato nel territorio degli indiani; sono anche venuto coi gendarmi, ma non c’è stato niente da fare: quella porta non si è mai aperta. E intanto un saguaro mi cresceva nel cuore. No, quella porta non si è mai aperta. E non per colpa mia. Perché io ho implorato il mondo di aprirla, quella porta. Ho pregato Dio. Mi son sentito morire cento, mille volte. Ma da solo non potevo. Anche se sapevo che dietro c’eri tu.

-Allora è colpa vostra!- dice il figlio ai gendarmi – è colpa vostra che sapevate e non avete fatto niente!-

-Ma cosa potevamo fare noi, dovevamo abbattere quella maledetta porta? Per metterti fra le braccia di tuo padre? Non ci si può arrampicare su un cactus. Siam venuti tante volte, anche con lo sceriffo Joshua… abbiamo attraversato il deserto…  e…  avremmo potuto, sì, far rispettare la legge, ma tu ne saresti stato traumatizzato; e poi il giudice Brown ci avrebbe sgridato. Sgridato, sì… Anche se era stato proprio lui a emettere il provvedimento… No, noi non ne abbiamo proprio colpa. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Fin dove potevamo. Abbiamo sempre confortato tuo padre, gli abbiamo dato i moduli per le denunce e gli abbiamo offerto il whisky e il sigaro in caserma. Ma di più, credici figliolo, di più non potevamo. E’ difficile buttare giù una porta, ancor di più se aldilà c’è un bambino. La colpa è di chi quella porta l’aveva chiusa-.

-E’ colpa tua, mamma! Tu avevi chiuso quella porta.

-No, la colpa non è mia, cucciolo: io ho fatto quello che la giustizia mi consentiva di fare: la prova è che nessuno, neanche lo sceriffo, si è azzardato a buttarla giù, quella porta. Anche perché nessuno, credimi tesoro, si è mai presentato a prenderti. Nessuno è mai venuto qui al ranch. D’altronde il mio avvocato me lo aveva detto: le porte nel nostro grande paese non si buttano mai giù. Stia tranquilla signora, che è in una botte di ferro. Neanche il più forte dei bisonti sarebbe in grado di fare breccia. Il mio avvocato me l’aveva detto. E ha avuto ragione.

-Quindi è colpa tua avvocato!-

-No, io faccio il mio mestiere e il mio mestiere può essere anche, talora, quello di esasperare le persone; anche solo per ottenere un atto squilibrato. Ma io ho semplicemente dato un consiglio. Tua madre lo ha accettato. Poteva anche non farlo. In fondo, le mie, erano parole scritte nella sabbia del deserto. Io ho solo cercato di far ottenere alla mia cliente, a tua madre, il massimo tornaconto. Per quello ho studiato. Per quello sono pagato. Su quello ho giurato. Io non sono un cow boy, io non ferro i cavalli: ho agito sulla base di quello che ho imparato essere il modo di ragionare del giudice. Su quello ho modellato i miei pareri. Esattamente come le pareti friabili del canyon sono state modellate dai venti dell’altopiano. E non ho sbagliato: prova ne sia che lo psicologo del Tribunale ti ha messo sempre nelle mani di tua madre. Perizia dopo perizia. Denuncia dopo denuncia. Dollaro dopo dollaro-.

-Allora è colpa tua, psicologo!-

-No. Io sono solo il Consulente del Tribunale. Seguo il vento della prateria. E spesso, nel più recondito angolo del mio animo, soprattutto alla sera quando sono solo di fronte al mio whisky, mi sento il lacchè del giudice: io devo dire ciò che il giudice vuole sentirsi dire. Altrimenti non verrò più chiamato nei Tribunali e perderò tanti dollari. Ma non dirlo a nessuno, ragazzo. Ho anch’io una dignità. No. Non è colpa mia se non hai più visto tuo padre: io ho espresso un parere e sono pagato per questo. Un bambino non ha padre. Ha solo una madre. E a percorrere sempre la stessa traccia, si suda meno e non si sbaglia mai. Come le carovane nel deserto, ragazzo. Le carovane che vanno a Tucson. Ma io non sono un magistrato: è il giudice Brown che infine decide, non io. Se tua madre non ti ha consegnato venti, quaranta, cento volte a tuo padre, io non posso farci niente. Io non potevo verificare chi dei due diceva la verità: non sono mica un giudice, io-.

-E’ colpa tua!- dice il ragazzo a voce alta indicando il magistrato – se io sono cresciuto senza un padre: è colpa tua che eri stato informato e non hai mai fatto niente!-

Ma il giudice Brown ribatte : –Io sono oberato di compiti più importanti e meritevoli di attenzione che star dietro a due litigiosi che non hanno mai voluto fumare il calumet della pace; che vedere se un bambino ha veramente due genitori; che pensare a chi dei due genitori garantisce le migliori prospettive di vita. Devo seguire i furti di bestiame, gli assalti degli ultimi indiani alle diligenze e le distillerie clandestine… ho più compiti io che spine un cactus. Non posso stare dietro a tutto, io. Non posso essere esperto di tutto. Pensa che stamane non ho ancora avuto il tempo di bere il mio whisky al saloon, ragazzo. Pensa che a volte non ho neanche il tempo di aprirle le scartoffie. E così mi sono allenato a capirne il contenuto dallo spessore. Non ho più bisogno di aprirli i faldoni, io. E poi, ragazzo, a me hanno insegnato così: che con la separazione un genitore lo si perde quasi sempre ed è meglio, per te, per tutti, che quel genitore sia il padre. Sempre e comunque. Premuroso o menefreghista. E’ questo il tuo buy prescription drugs without prescription supremo interesse. Chi segue sempre la stessa pista non corre il rischio di perdersi. Non chiedermelo dove l’ho studiato e soprattutto dove ho trovato il tempo di studiarlo, ragazzo. Certo non nella Bibbia ma… è così; non è colpa mia se tuo padre è nato Uomo, è nato come un Negro in Alabama, cioè figlio di un Dio minore. Ma, vedi, non mi sbagliavo: anche lo psicologo, prima di andare ad ubriacarsi al saloon, me lo ha confermato. Ho fatto bene ad archiviare tutte le denunce di tuo padre: così tua madre ha dormito serena e tu non sei stato turbato. Questa sera io dormirò tranquillo e la mia coscienza sarà in pace. Come sempre. Domattina mi alzerò e, guardandomi nello specchio, non proverò vergogna. Perché io sono la legge. Io sono la giustizia. Che a volte può e deve essere feroce; come un coguaro. E pungente; come uno sperone. In piena autonomia e indipendenza io sentenziai la tua rovina, è vero: ma lo feci nel nome del popolo!

Ricordalo, ragazzo della prateria. Non fui io a uccidere tuo padre-

L'Udienza Presidenziale — di Vittorio Vezzetti

“Esistono giorni, nella vita di un uomo, che sono completamente diversi da tutti quelli che li hanno preceduti; e che sono capaci di dare, a quelli che seguiranno, una prospettiva completamente differente.

Carlo si ricorderà per sempre quel giorno anomalo: l’acqua cadeva a catinelle, quasi tropicale. Un diluvio veramente insolito per la fine di novembre.

Parcheggiò la macchina ben lontano dal Tribunale, vicino al fiume tumultuoso, per non dover pagar la sosta; e poi, ombrello spiegato, si incamminò tra una goccia e l’altra verso il centro città.

“Speriamo che non tracimi”, pensò, percorrendo il ponte sulle acque plumbee, “se no, perdo anche la macchina”.

Di solito la separazione rappresenta la fine, dolorosa, di un qualcosa. Di un pezzo di vita; e così anche Carlo stava vivendo quel giorno. Senza neanche dei patemi eccessivi. Non sapeva e non poteva immaginare che, invece, quello sarebbe stato l’inizio di una vicenda di durata e intensità maggiori del vincolo che si andava a risolvere…  una vicenda che avrebbe segnato il futuro suo e quello di tante altre persone; che sarebbe corsa parallela alla sua vita. Come succede quando si è seduti in un treno e si corre fianco a fianco a un altro treno; che va nella tua stessa direzione; alla medesima velocità.

Era in anticipo clamoroso, come sempre, quindi si fermò sotto i portici di Corso Garibaldi ripetendo la lezione. Dieci minuti. Sì, dieci minuti. Così gli aveva detto Domenico. Aveva dieci minuti per spiegare la sua vita matrimoniale al Presidente del Tribunale. Dieci minuti per raccontare la sua storia.  Dieci minuti e non uno di più per raccontare un pezzo di vita. Allo scoccare del decimo minuto, infatti, il Presidente ti faceva accomodare fuori dall’ufficio.

Per questa ragione si era trovato per due o tre pomeriggi con Domenico che, ironia della sorte, aveva l’udienza presidenziale il giorno dopo di lui: si erano cronometrati a vicenda gli interventi in modo da vedere se sforavano i fatidici dieci minuti e se potevano essere più incisivi evitando di tralasciare momenti cruciali del matrimonio e del divorzio emotivo. A cui, come spesso succede, stava seguendo la separazione legale.

Prima di entrare in Tribunale Carlo, assorto nel ripasso, pestò involontariamente un escremento di cane: volle credere che gli avrebbe portato fortuna. Entrato e superato il metal detector, la sua attenzione fu colpita da un signore, piccolo e tozzo, fermo in un angolo. Dritto in piedi, con lo sguardo fisso e vestito in modo singolare (interamente di rosso) lo salutava con la mano.

Carlo non fece in tempo a soffermarvi la sua attenzione che trovò il proprio legale: l’avvocato Aquilani. Costui era anziano, alto, anzi, altissimo, e segaligno, col naso adunco. Un viso severo. Vestiva in modo impeccabile. Uno dei due o tre migliori matrimonialisti  della città. Una pietra miliare del Foro. Un rodomonte, dicevano.

A consigliarglielo era stato, per il tramite di un’amica comune, un anziano magistrato in pensione.

“Vedrai che arringhe…  un avvocato così grintoso non si trova facilmente…  e poi, che presenza… ”, le era stato detto; e così Mirella aveva riferito.

Salirono davanti all’ufficio del Presidente del Tribunale presso il quale erano stati convocati per le ore nove. Esattamente come altre venti coppie in separazione che annaspavano nella minuscola anticamera coi rispettivi legali…  E l’ufficio, ovviamente, era vuoto. Dopo mezz’ora arrivò il Presidente, il dottor  Piccolò, piccolo di nome e di fatto, che si fece Buy Viagra facilmente strada fra la ressa di coppie che affollavano il corridoio.

Come il magistrato fu a portata di vista dell’avvocato Aquilani, questi, il rodomonte, si prostrò ai piedi del magistrato proferendo la frase: “Buongiorno Presidente, era abbastanza dolce il caffè? Sa, la macchinetta ieri era guasta… ”

Il Presidente non lo degnò di uno sguardo. Tra ombrelli e impermeabili gocciolanti Carlo, l’avvocato Aquilani, la moglie di Carlo e il di lei avvocato, la temibile dottoressa Laganà, attesero il turno con grande trepidazione. Carlo, quantunque alla soglia dei quarant’anni, mai aveva avuto a che fare coi Tribunali.

Cittadino probo, riteneva in ogni caso di non dover avere timore della giustizia italiana. Aveva forse commesso qualche reato?

Pensava di avere molte ragioni e riteneva che, col suo discorso logico e perfezionato sin nei minimi particolari, non ci sarebbe stato nessun problema a convincere una persona ragionevole della bontà della sua esposizione e dell’onestà delle sue richieste. Giunse alfine il suo turno. Qualcuno proferì il suo nome e lui entrò.

Si trovò da solo in un ufficio enorme, un po’ disadorno, e di fronte a lui il giudice Piccolò. Di lato, seduta a una scrivania, la sua segretaria.

Fece appena in tempo a richiamare alla memoria il suo discorso, nove minuti e cinquantotto secondi, che il giudice gli chiese: “Nome?”

“Carlo Carlucci”.

“ Bene”, ribatté il magistrato, gentile ma fermo, “firmi e si accomodi pure fuori”.

“Eh no, signor Presidente”, disse Carlo, ”io son venuto qui per esporre cosa è successo alla mia vita; alla vita di mio figlio, l’unica ragione di esistere, per me;  mi ha detto l’avvocato che questo è l’unico momento della causa in cui posso parlare. Anzi, io ora ho il diritto di parlare. E non le ruberò molto tempo”.

“Ah”, sbottò il magistrato, “lei vuole parlare…  ha sentito segretaria? Questo vuole parlare. Anzi, ha addirittura il diritto di parlare. Siamo dovuti arrivare alla lettera C per trovare qualcuno che vanta diritti… Ma Carlucci, ha visto quanta gente c’è oggi lì fuori? E se tutti volessero parlare? Se lo è domandato che accadrebbe? Tribunale paralizzato. Ma dov’è il suo senso civico?”

Carlo restò muto e fermo, con gli occhi piantati in quelli del Presidente.

“Vabbé…  ascolti…  Carlucci…  se lei ha il diritto di parlare…  questo è il tempio del diritto…  per carità, si sieda e parli! Ma in fretta, senza dilungarsi…  che io il caffè questa mattina ancora non l’ho bevuto”.

Carlo iniziò…  senza prendere fiato snocciolò un racconto che a lui pareva struggente e convincente. A lui. Iniziò come un fiume in piena, perché sapeva che il tempo non sarebbe stato molto.

Iniziò a occhi chiusi, come a cercar la concentrazione assoluta. Dopo un minuto aprì gli occhi e si accorse di parlare a una scrivania vuota e a un muro bianco, dietro.

Il magistrato si era infatti allontanato e, senza prestare ascolto alle sue parole, sicuramente uguali a quelle di migliaia di altri coniugi sciagurati, si era messo a sistemare delle cartellette in un’ampia scaffalatura dall’altra parte della stanza. Tant’è che quando Carlo finì, nulla accadde. Il magistrato continuava imperterrito a posizionare cartellette.

“Ho finito, signor Presidente”, disse Carlo per due volte. La seconda a voce alta.

“Ah,bene, come si chiama?”, ribatté il giudice Piccolò.

“Carlo Carlucci”.

“Ottimo: firmi e si accomodi fuori”, concluse il giudice.

Uscito che fu dalla stanza, l’avvocato Aquilani gli si fece incontro sorridente: “Complimenti, lei deve essere riuscito a incantare il Presidente. Ho cronometrato.

L’ha tenuta dentro quasi quindici minuti. Per la precisione quattordici minuti primi e quarantanove secondi. Risultato veramente straordinario. Non mi ricordo una presidenziale così lunga…  potrebbe -sottolineo il condizionale- trattarsi di una ordinanza fuori dagli schemi. Sarebbe anche ora! Pensi che in qualche grosso Tribunale metropolitano, rapportando il numero di coppie al tempo dedicato dal giudice nella mattinata, hanno calcolato che in media la presidenziale dura un minuto e ventotto secondi. E lei mi ha fatto addirittura un quattordici e quarantanove…  e in condizioni climatiche avverse. Se fosse un rodeo avrebbe già vinto”.

“Mi dica: come pensa che andrà, avvocato?”, domandò Carlo, un po’ frastornato, mentre uno dei tanti legali presenti annuiva sorridendogli.

“Mah, la sua battaglia è difficile, inutile negarlo. Numeri alla mano le mamme in Italia hanno potere quasi assoluto sui figli. Però credo che se il buon giorno si vede dal mattino…  beh…  siamo partiti bene. Prevedo una bella battaglia; come il mitico scontro scacchistico Spassky-Fischer del 1972 a Reykiavik. Fra sette giorni vedremo cosa avrà deciso il Presidente”.

Dopo dieci giorni, però, nessuna ordinanza era stata depositata…  e neanche dopo quindici… e dopo venti…

“Ottimo segno”, commentò l’avvocato Aquilani. “Lei, caro Carlucci, con la sua dialettica deve essere riuscito a mettere in crisi il Presidente. Quattordici e quarantanove, non dimentichiamocelo. Forse non sa neanche più lui cosa decidere. Forse, beninteso”.

Ormai Natale si stava avvicinando.

Carlo da mesi non riusciva a vedere il bambino per il semplice fatto che, se si avvicinava alla casa, o non vi trovava nessuno o comunque nessuno gli apriva  la porta. A lui pareva incomprensibile ma altri gli avevano detto che il taglio dei contatti con la prole è la prima arma di pressione che adottano parecchi genitori, prevalentemente ma non esclusivamente mamme, all’inizio della causa.

L’avvocato Aquilani lo aveva dissuaso dal fare denunce: “Lasci perdere, Carlucci.

Il comportamento di sua moglie, per quanto moralmente discutibile, non ha nessun rilievo penale: è genitrice del bambino e non sta infrangendo nessuna disposizione del magistrato. Finché non arriva l’ordinanza che stabilisce gli orari di visita non c’è niente da fare: vige la legge della giungla e chi ha in mano il bambino vince. Si ricordi Carlucci: possesso è potere. Deve solo aspettare l’emissione dei provvedimenti. Sperando non duri troppo, questa attesa, se no di suo figlio non si ricorderà più nemmeno la faccia”.

Carlo, un po’ inquietato, volle allora interpellare, per il tramite della solita amica Mirella, il vecchio magistrato Perrucci. Ormai in pensione, egli vantava una amplissima esperienza e si limitò a dire a Mirella, incredula: “Dì al tuo amico di rassegnarsi: quando la strada prende questa brutta piega il padre non vede più i figli. Tante volte mi è capitato nella mia professione: anche se c’è il provvedimento che stabilisce le visite, la mamma ci impiega un attimo a trovare una scusa per non ottemperarvi…  il mal di pancia, il dente che fa male, la scappata in farmacia o dal pediatra…  è così…  non c’è niente da fare…  e noi magistrati solitamente preferiamo non intervenire: chi si prende la responsabilità? Riferisci al tuo amico che si rassegni.  Come tanti altri prima di lui. E dopo di lui. Situazione senza speranza”.

Carlo quasi non credeva alle sue orecchie, quando sentì da Mirella il consiglio del giudice. Ma non per questo egli avrebbe cessato di combattere. Anzi, per lui la battaglia era solo all’inizio. E poi…  che ne poteva sapere, in fondo, un vecchio magistrato in pensione, ormai fuori dai giochi? Niente, per cui fece un esposto al Tribunale dei minori e spedì una lettera al Presidente del Tribunale per sollecitare l’emissione dei provvedimenti; all’insaputa del suo avvocato Aquilani.

Non gli era infatti mai capitato di trovarsi in una situazione del genere. Tutte le volte, poche per fortuna, che si era trovato nel bel mezzo di un disservizio o di una disfunzione di un ufficio pubblico, Carlo aveva sempre saputo cosa fare: aveva scritto diligentemente una raccomandata con ricevuta di ritorno al Responsabile del Servizio. Questi aveva trenta giorni di tempo, a termini di legge, per rispondere. Una volta gli rispose, telefonicamente, addirittura il Direttore Generale dell’ASL. Qui, però, la situazione gli sembrava differente. Nessuno era tenuto a rispondere. Il magistrato può, in totale autonomia e indipendenza, secondo la sua sensibilità, imprevedibile, decidere se rispondere o non rispondere. E quasi sempre non risponde. Si era trovato, Carlo, per la prima volta nella sua vita, di fronte a una imperscrutabilità assoluta del sistema. Una sorta di Sibilla Cumana. Una parete di vetro oscurato: dalla quale loro potevano vederti mentre tu non sapevi cosa si facesse al di là; anche se sicuramente si poteva ipotizzare che, al di là del vetro, avessero cose più importanti che occuparsi di tuo figlio. E di tanti, troppi figli come il tuo. Ormai Natale incombeva…  da lì nacque l’idea, per l’ancora ingenuo Carlo, della lettera a Babbo Natale spedita direttamente al Presidente del Tribunale. Avrebbe ottenuto, quest’arma anticonvenzionale, impropria, frutto della disperazione, qualche risultato?”

Capitolo primo del libro-romanzo “Nel nome dei figli” di Vittorio Vezzetti; edizioni BookSprint

Centro anti-violenza “denuncia” comune

Immaginiamo che un Comune paghi una ditta per realizzare siti web.  Ad un certo punto vuole verificare questi siti web, e la ditta risponde: ne abbiamo fatti 8, sono venuti bene, ma non ti diciamo gli indirizzi di questi siti; pagaci lo stesso, altrimenti ti denunciamo.  Impossibile?

Ebbene, un comune italiano paga 22000€ annui ad un locale centro anti-violenza.  La dirigente del settore Servizi Sociali chiede di verificare il loro operato, ma il centro rifiuta di fornire i nomi delle donne che hanno usufruito del loro servizio. Il comune smette di pagare.  Un Giudice ha dato torto al comune [link: la sentenza].

*   *   *

Ingenti somme di denaro pubblico dovrebbero quindi essere lasciati ad una gestione privatistica basata sulla fiducia?  La riforma proposta dal prof. Amendt risolverebbe anche questo problema: chiudere questi centri e includere le loro competenze nel settore pubblico, affidandole a uomini e donne capaci di collaborare sulla base dell’etica professionale nell’aiutare famiglie con problemi di violenza.

Il motivo principale addotto dal sociologo prof. Amendt non è di carattere economico (ed ovviamente non ha niente a che fare con il caso particolare); ben altre conseguenze negative egli vede nell’aver abbandonato tali compiti a centri che definisce “focolai  di misandria” per via della loro matrice femminista e anti-famiglia.

In sostanza oggi sembra esistere una sorta di “polizia privata” (ma a spese dello Stato, privato del diritto di controllo in base al principio della “privacy”) operata da solo donne per solo donne.   Bambini di cui era stata denunciata la scomparsa sono stati ritrovati mesi dopo in questo tipo di centri.  Quando poi risulta che il “padre cattivo” da cui difenderli esiste solo nel paraocchi dell’ideologia femminista, chi ripaga questi bambini della vita persa?  E se hanno subito un danno biologico, quale l’alienazione genioriale, saranno le femministe o i Comuni e quindi noi tutti ad essere responsabili del male fatto a questi bambini ed a rimborsarli?

Per approfondire:

  • la fondatrice dei centri anti-violenza ci racconta che le femministe se ne sono appropriati trasformandoli in “copertura per odiare gli uomini” [link]
  • inchiesta della giornalista Donna Lafambroise su “centri antiviolenza: supermarket di divorzi per donne” [link]

Perché alcuni avvocati negano l'Alienazione Genitoriale

Ci sono alcuni — soprattutto gli avversari nelle controversie legali per l’affido dei figli — che affermano che non esiste la PAS, che è solo una teoria, o che è la “teoria di Gardner”. Alcuni sostengono che essa è solo frutto della mia immaginazione. L’argomento principale addotto per giustificare questa posizione è che non appare nel DSM-IV. I comitati del DSM giustamente sono abbastanza conservatori per quanto riguarda l’inclusione dei fenomeni clinici descritti di recente e richiedono molti anni di ricerche e pubblicazioni prima di considerare l’inclusione di un disturbo. Questo è giusto. La PAS esiste! Qualunque avvocato coinvolto in custodie per l’affido dei figli può attestarlo. I professionisti della salute mentale ed i legali coinvolti in tali controversie la osservano. Potrebbero non volerla vedere. Possono dargli un altro nome (come “alienazione genitoriale”). Ma questo non esclude la sua esistenza. Un albero esiste come albero a prescindere dalla reazioni di chi lo guarda. Un albero esiste ancora anche se alcuni potrebbero dargli un altro nome. Se un dizionario selettivamente decide di omettere la parola “albero” dalla sua compilazione di parole, ciò non significa che l’albero non esista. Significa solo che chi ha scritto quel libro ha deciso di non includere quella particolare parola. Allo stesso modo, se qualcuno guarda un albero e dire che l’albero non esiste non fa sparire l’albero. Significa solo che lo spettatore, per qualche ragione, non vuole vederlo. Dire che la PAS non esiste perché non è elencata nel DSM-IV è come dire che la malattia di Lyme nel 1980 non esisteva perché non era elencata. La PAS non è una teoria, è un dato di fatto .
Ma perché questa polemica, in primo luogo? Di solito non si ha una tale controversia per quanto riguarda la maggior parte delle altre entità cliniche in psichiatria. Gli esaminatori possono avere opinioni diverse per quanto riguarda l’eziologia e il trattamento di un disturbo psichiatrico particolare, ma di solito c’è un certo consenso sulla sua esistenza. E questo dovrebbe essere soprattutto il caso di un “disordine” relativamente puro come la PAS, un disturbo che è facilmente diagnosticabile a causa della somiglianza dei sintomi in bambini diversi. Nel corso degli anni, ho ricevuto molte lettere da persone che hanno detto in sostanza: “Il suo libro sulla è inquietante. Lei non mi conosce, ma il suo libro ha descritto quanto accaduto nella mia famiglia. Lei ha scritto il suo libro prima che tutti questi guai iniziassero. È quasi come se avesse previsto cosa sarebbe successo”. Perché, allora,una tale controversia sull’esistenza della PAS? Una spiegazione sta nella situazione in cui la PAS emerge e in cui la diagnosi è fatta: contenziosi viziosi per l’affido dei figli. Una volta che un problema è portato davanti a un tribunale, nel contesto di un procedimento in contraddittorio, conviene ad una parte opporsi a qualunque cosa sostenga la controparte. Un genitore accusato di provocare la PAS in un bambino può avvalersi dei servizi di un avvocato che può invocare l’argomento che non esiste una cosa come la PAS. E se questo avvocato può dimostrare che la PAS non è elencata nel DSM-IV, la posizione è considerata “provata”. In realtà, l’unica cosa provata è che il DSM-IV non elenca ancora la PAS.
Richard A. Gardner, M.D.
Cresskill, New Jersey
June 9, 1999

[Fonte: da http://www.fact.on.ca/Info/pas/misperce.htm]

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Fonte 1: screen-shot tratto da http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2010/10/12/a-latina-un-nuovo-centro-per-le-vittime-di-violenza-donne-bambini-e-uomini-vittima-di-abusi-infantili

Fonte 2: screen-shot tratto da http://www.facebook.com/topic.php?uid=113726215321540&topic=27

Fonte 3: citando propecia finasteride il padre del bambino coinvolto, il quotidiano www.edizionioggi.it del 22/2/2011 riferisce (link)

«…Valentina Pappacena, è indagata dalla Procura di Latina per inosservanza dei provvedimenti del giudice, per sottrazione di minore, e forse anche per sequestro di persona e non so quali altri reati. ma tutto questo non è bastato all’esponente dell’IdV che, per premio, l’ha eletta presidente provinciale delle donne IdV e le ha aperto un Centro Antiviolenza Donne a Latina. Lei, come si evince dalla CTU ordinata dal Tribunale dei Minori di Roma, è responsabile di Mobbing Genitoriale nei confronti di mio figlio, e di una serie di infinite violenze psicologiche atte ad annullare la figura paterna nei confronti del bambino»

La lettera di una bambina vittima di alienazione genitoriale

La PAS, come la pedofilia, è gravissimo abuso contro l’infanzia.  C’è chi difende le donne separate che praticano l’Alienazione Parentale (PAS), e cioè plagiano i propri figli fino a far loro odiare i loro padri.  Su un sito in cui si tenta di negare la PAS viene riportato uno scritto attribuito ad una ragazza americana di 14 anni.

Dalla storia deduciamo che da piccola venne privata del vero padre, cui la madre ha sostituito un suo nuovo “uomo”; il padre ha ottenuto che i Giudici proteggessero la figlia, che nel frattempo è diventata una ragazza di 14 anni, cui è stata diagnosticata la PAS.  Nei casi di PAS di grado grave, l’unica soluzione è l’immediato allontanamento dal genitore alienante, misura che spesso viene applicata dopo che tutte le altre strade sono fallite, fra cui il tentare di vedere se i bambini, aiutati da terapeuti, riescono da soli a riprendere contatto con la realtà.   La ragazza scrive su questo sito:

Ho avuto a che fare con molti abusi nella mia vita. Avevo solo 12 anni quando è successo a me. Ho avuto una terapeuta, J.B.. Nel 2009, avevo un appuntamento con lei in modo che potesse determinare se il ricongiungimento col mio padre biologico era possibile o no. Le ho detto almeno 50 volte che lo odiavo, che egli aveva già abusato fisicamente la mia famiglia, e che mai nella mia vita avrei accettato di ricongiungermi a lui. La pregai di non farlo, ma non mi ha ascoltato. Mi afferrò per il polso e prese a trascinarmi fuori dal suo ufficio, mi rinchiusero in una piccola stanza con mio padre biologico, e tutto questo nonostante lei avesse detto che capiva che io non avrei mai voluto ricongiungermi a lui. Ho tirato e tirato e finalmente sono riscita a liberare la mia mano dalla sua presa stretta. Lei si voltò e mi guardò con uno sguardo di puro odio e disgusto. Camminò verso di me e mise la guancia contro la mia e disse che violavo la legge se non avessi voluto stare con il mio padre biologico. Successivamente al Triad Family Services sono stata ancora una volta abusata. Mi è stato detto da tre operatrici che se non avessi fatto incontri protetti con mio padre biologico, mi avrebbero affidata a lui, e non avrei avuto più alcun contatto con mia madre. Ero terrorizzata all’idea che ciò accadesse soprattutto al ricordo di quando io ero sottoposta a regime di affido condiviso. Era sempre ubriaco, fumava, ragione per cui ho una grave forma di asma; una volta ha intrappolato le mie sorelle in un angolo con fuochi d’artificio accesi causò loro vesciche ai piedi e bruciò i loro vestiti. Alla fine ho accettato di andare agli appuntamenti protetti spinta della paura terrificante che avevo provato grazie alle loro minacce. Durante quegli incontri mia sorella ed io siamo state abusate. Mia sorella è stata molestata sessualmente da mio padre biologico ed io sono stata maltrattata verbalmente. Mi sono state dette molte cose tra cui di andare all’inferno. La terapeuta che aveva il dovere di proteggere me, era impegnata a scrivere durate quegli incontri. Io e mia sorella sono state vittime di abusi e non abbiamo assolutamente ricevuto alcuna protezione. Nei successivi incontri, ho accusato l’operatrice e mio padre biologico di tutte le situazioni di abuso che si erano verificati durante gli incontri protetti, essi hanno sostenuto che tutto ciò non era affatto accaduto e che stavo mentendo, quando in realtà non stavo mentendo affatto! Sono stata costretta contro la mia volontà ad essere violentata in un modo tale che nessun bambino dovrebbe affrontare. Non ho avuto nè giustizia nè la libertà in questi ultimi tre anni. Allora vi devo chiedere per l’ultima volta, perché una grande quantità di bambini hanno dovuto far fronte alla sfortuna di dover affrontare i pregiudizi da parte delle autorità? Perché così tante vite sono state rovinate a causa delle decisioni e delle raccomandazioni di molti terapeuti e dei tribunali di famiglia? E perché non vi è stata alcuna giustizia nel nostro paese?

Tutto ciò può avere due interpretazioni, e lasciamo all’intelligenza di chi legge capire quale sia quella giusta:

1)  Secondo femministe ed abusologi, le ragazza e sua sorella sono state realmente abusate e buy prescription drugs online violentate dal loro padre mentre le operatrici dei Servizi assistevano indifferenti o partecipavano.  Pena di morte per il padre pedofilo.

2)  La PAS ha talmente devastato la mente di questa povera ragazza che vede inesistenti abusi, addirittura in una situazione protetta, addirittura dalle tre professioniste.  Per la sua sanità mentale occorre che venga protetta dalla madre alienante.

Per chiudere con una nota positiva, ricordiamo un caso che ha avuto risalto sulla stampa italiana: un bambino rapito ed alienato da una madre descritta come “sofferente di gravi disordini della personalità”.  Abusologi vicini alla donna pubblicavano sui loro siti web le grida di odio del povero bambino contro il papà.  I giudici hanno capito che erano grida di dolore di un bambino cui veniva impedito di esprimere i suoi veri sentimenti, e lo hanno protetto dalla madre: oggi, dopo mesi di cure, il piccolo si sta riprendendo come solo i bambini sanno fare: è felice di stare con il suo papà, di telefonargli quando è lontano.

Speriamo che anche la ragazza possa essere curata, e che venga fermata la gente che ha causato e sta causando tanto male a tanti bambini.